Lettrici e lettori di Senza Linea, questa settimana abbiamo deciso di individuare le cinque battute, tratte da film italiani e internazionali, che hanno sicuramente lasciato un segno indelebile nella memoria di tanti e nel nostro stesso immaginario collettivo. Le battute che, insomma, tutti avremmo voluto recitare, se fossimo diventati delle star del Cinema!
Prima fra tutte è una battuta molto nota, tratta dal film “Stanno tutti bene”, film drammatico italiano del 1990, diretto da Giuseppe Tornatore ed è la seguente: “Il vino si fa pure con l’uva ed è il migliore”.
E’ una battuta che, pur non avendo una straordinaria potenza evocativa, esprime un approccio alla vita e alla visione della vita di incredibile impatto emotivo: ci suggerisce, infatti, che nella vita lo stesso obiettivo si può raggiungere in diversi modi, ma in realtà solo uno di essi ci permette di essere veramente soddisfatti e in pace con se stessi. Nessuna ortodossia, nessun giudizio, solo buon senso e amore per la verità.
Per capire a fondo la battuta, poi, occorre calarsi nel contesto del film, il cui protagonista, Matteo Scuro, un sublime Marcello Mastroianni, uomo di solidi principi, vedovo e pensionato, decide di andare a far visita ai suoi cinque figli che abitano sparsi in varie città italiane. Sicuro di trovare ambienti familiari sereni e felici, come del resto gli è sempre stato fatto credere, si accorgerà invece che i figli sono dei falliti che hanno sempre cercato di nascondere al padre le loro frustrazioni e le sconfitte della vita: sia nel lavoro, sia nella conduzione delle rispettive esperienze matrimoniali e dei nipoti. Alla fine, di ritorno in Sicilia, svuotato di quell’orgoglio paterno con il quale si era messo in viaggio, Matteo Scuro è costretto a mentire a se stesso e alla moglie defunta, a cui continua a rivolgersi come se fosse ancora viva, dicendole che i loro figli «stanno tutti bene».
Altra battuta celebre che ci piace recuperare dalla nostra memoria è: “Non so mai se un ricordo è qualcosa che ho o qualcosa che ho perduto”. Inutile arrovellarsi sull’eventualità di una risposta univoca, ognuno ha la sua soluzione al dilemma, ma la densità e la pienezza di questo interrogativo, riempie ogni piega della nostra mente.
Si tratta di una battuta presente all’interno di “Un’altra donna”, un film del 1988 diretto da Woody Allen, dai chiari rimandi bergmaniani, e rappresenta una vera e propria perla del cinema di Allen. Delicato, intimo, sofisticato e molto profondo, è un film che si fregia di una bellissima interpretazione di Gena Rowlands.
Una cinquantenne professoressa di filosofia sembra esser contenta di sé fino al giorno in cui, trovandosi accidentalmente ad ascoltare le sedute psicoanalitiche di una donna più giovane di lei, si ritrova a fare un bilancio della sua vita, scoprendo di non essere una persona soddisfatta come invece credeva. Col passare del tempo, comincerà a origliare le dichiarazioni della donna della porta accanto, confrontandosi con le confessioni di quella sconosciuta, che le ricorda se stessa da giovane, e che le stimola l’emersione di un elenco di rancori: l’aver rinunciato a grandi e sincere passioni in cambio di una vita cinica e costruita sulla routine insieme a un piccolo borghese, l’aver voltato le spalle all’esperienza della maternità, e l’essersi allontanata dalle persone più care, come il fratello. Parte così la sua ricerca del tempo perduto e delle occasioni sprecate. E al termine, arriva il momento di ricominciare da capo, suggellato dalla presenza dal quadro di Klimt “Speranza”, che più volte compare nel corso della pellicola.
Nell’immaginario collettivo, poi, esistono dichiarazioni d’amore che tutti vorremmo ascoltare dalla persona che ci sta accanto. La prossima battuta memorabile ne è un fulgido esempio:“Nessuno t’amerà mai come ti ho amato io. C’erano momenti disperati che non ne potevo più e allora pensavo a te e mi dicevo: Deborah esiste, è la fuori, esiste! E con quello superavo tutto. Capisci ora cosa sei per me?”
Questa battuta che David “Noodles” Aaronson, interpretato da Robert De Niro, dedica alla sua compagna è tratta da “C’era una volta in America”, capolavoro del 1984 di Sergio Leone.
La pellicola narra, nell’arco di più di quarant’anni, le drammatiche vicissitudini del criminale David “Noodles” Aaronson e dei suoi amici nel loro progressivo passaggio dal ghetto ebraico all’ambiente della malavita organizzata nella New York del proibizionismo e del post-proibizionismo.
Presentato fuori concorso al 37esimo Festival di Cannes, è il terzo capitolo della cosiddetta trilogia del tempo, preceduto da “C’era una volta il West” (1968) e “Giù la testa” (1971). Malgrado lo scarso successo di pubblico alla sua uscita, col passare degli anni è stato definito unanimemente uno dei film più belli di sempre, posizionandosi quasi sempre nelle classifiche dei film preferiti di pubblico e di critica.
Il film ci restituisce un Robert De Niro che offre un’interpretazione di grande finezza psicologica e di fortissima maturità, nonché di grande intensità e dolcezza, come la battuta estrapolata dal film ci testimonia, ancora più forte se rapportata, per l’appunto, alla fabula del film densa di violenza.
D’altronde, C’era una volta in America non è un film sui gangster. È un film sulla nostalgia di un determinato periodo, di un determinato tipo di cinema, di una determinata letteratura.
La quarta battuta che vi proponiamo è tratta da un altro lavoro di Sergio Leone, ossia “Per qualche dollaro in più” (1965). “Le domande non sono mai indiscrete, le risposte a volte lo sono” è, infatti, una battuta tratta da un aforisma di Oscar Wilde, che il Colonnello Douglas Mortimer (Lee Van Cliff) recita all’interno del film di Sergio Leone.
Provate a riflettere sull’essenzialità e sulla profonda verità che la frase nasconde; pensate a questa semplice domanda: “Che lavoro fai?” Se la risposta è “sono un insegnante” non succede nulla e la conversazione può proseguire sui binari della cordialità, ma se al contrario chi ci sta di fronte è una persona disoccupata, la risposta diventa inevitabilmente indiscreta e foriera di imbarazzi perché se è vero che non è una colpa non avere un lavoro, è altrettanto vero che lo stesso ci conferisce una dignità sociale che troppo spesso viene calpestata.
i protagonisti del film sono un colonnello (Lee Van Cliff), un uomo anziano, colto e raffinato che si comporta con accurata premeditazione per compiere la sua vendetta e un professionista (Clint Eastwood) che fa il suo lavoro di mercenario e sembra che gli interessi solo il denaro. E il denaro è la forza motrice dell’azione. Ma scopriamo che forse il denaro non è così importante dopo tutto, perché si potrebbe morire da un momento all’altro e alla fine, infatti, il professionista salverà il colonnello invece di prendersi tutto il denaro per sé. E lo farà con un gesto di lealtà: darà il suo revolver al colonnello. Gli permetterà di guadagnarsi la vita, scontrandosi alla pari con l’Indio, uno straordinario e bellissimo Gian Maria Volontè.
La forza evocativa della battuta che vi abbiamo citato sta proprio nel condensare il senso profondo e drammatico del capolavoro di Leone in cui tragicità e leggerezza, violenza e senso dell’onore si fondono in un congegno perfetto.
Probabilmente l’ultima battuta che vi proponiamo potrebbe sembrarvi, a prima vista, una caduta di stile ma secondo noi contiene in sé più significati. Si tratta di una battuta “epica” tratta dal film “Il Marchese del Grillo” (1981) di Mario Monicelli ed è pronunciata dal protagonista, il Marchese del Grillo appunto, interpretato da un indimenticabile Alberto Sordi.
Il Marchese, rivolgendosi a dei popolani tratti in arresto, dice “Ma io so’ io…e voi non siete un cazzo”, una battuta che, in realtà, è un verso estrapolato da “I soprani del monno vecchio” di Giuseppe Gioachino Belli che inizia così: C’era una vorta un Re cche ddar palazzo / mannò ffora a li popoli st’editto: / “Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo.
Al di là della sfacciataggine e dell’alterigia che accompagna la scena, la prosaicità va contestualizzata: il protagonista è infatti interamente costruito attorno alla grande capacità dell’attore romano di interpretare e caratterizzare maschere popolari sempre in bilico tra sentimenti umani contrastanti; il film rappresenta una commedia popolare, un’opera di puro intrattenimento teatrale nella quale i giochi di battute, condite di dialetto romanesco, di situazioni paradossali, di scambio di persone, determinano totalmente la comicità
Il marchese Onofrio del Grillo, nella rappresentazione di Mario Monicelli, è un personaggio satirico e letterario, una maschera aristocratica e reazionaria che dileggia e ridicolizza il sistema dal suo interno senza arrivare mai però a metterlo in discussione o peggio in pericolo, neanche quando fugge al nord per accogliere le truppe napoleoniche.
Da citare infine il commento musicale di Nicola Piovani: il compositore romano rievoca alcune famose ouverture di Rossini che sottolineano l’atmosfera buffa e scherzosa del film e forniscono ad Alberto Sordi la possibilità di esibirsi in qualche apprezzabile passaggio canoro.