Pubblicata tra il 1992 e il 1993 sulle quattro testate mensili che ospitavano all’epoca le storie dell’eroe col mantello, la saga di Doomsday segnò profondamente il mainstream del fumetto successivo. Essa infatti portò alla morte (seppur temporanea) del prototipo del supereroe a fumetti. Non che dopo le cose non sarebbero più state le stesse. Non lo erano già da un po’ – e in fondo le cose non sono mai come erano, per quanto ci si sforzi di tenerle ferme. Negli anni ’60 la morte di Gwen Stacy sulle pagine dell’Uomo Ragno, e la comparsa nei ’70 di personaggi dal fascino border-line come Wolverine e Punisher, avevano già minato la proverbiale ingenuità dei comics, un industria che aveva già iniziato a rincorrere i propri lettori dall’età dell’infanzia a quella della ragione: dai colori brillanti delle certezze infantili e oniriche, alla opaca pesantezza di un’esistenza adulta, fatta di preoccupazioni, complicazioni. Incertezze. Ambiguità. Mentre vecchi lettori trovavano a fatica il proprio posto in un mondo post-tatcheriano e post-reaganiano, super-esseri col volto distorto dalla rabbia facevano letteralmente a pezzi la vecchia no-killing-rule, eliminando pian piano il ricordo di quella stagione, insieme ridicola e tranquillizzante, che aveva partorito il Comic-Code. Anche l’età dell’argento era ormai un lontanissimo ricordo, e il racconto pop mostrava di nuovo l’inquietante somiglianza, agli occhi dell’uomo comune, tra l’eroico Beowulf e il mostruoso Grendel. Eppure, lo scontro fra il nuovo villain Doomsday e l’uomo d’acciaio fu un evento narrativo toccante, in grado, oggi come allora, di sconvolgere il lettore, regalandogli nel finale momenti di autentica inquietudine.
Co-ordinato dal veterano Mike Carlin, l’intera “squadra superman” viene coinvolta nel progetto, che infatti si dipana lungo tutte le testate legate al personaggio. Del gruppo fecero parte nomi come Louise Simonson, Jon Bogdanove, Rick Burchett o Brett Breeding. Ma il ruolo centrale nella stesura fu senz’altro quello di un giovane Dan Jurgens. I limiti dell’arco narrativo, e il suo debito innegabile ad esigenze pubblicitarie e di rilancio della casa editrice, sono già state ampiamente discusse altrove. Questa vuole essere una breve riflessione sui motivi, intrinseci ed estrinseci all’opera, per i quali un evento narrativo simile può acquisire (e mantenere) un pathos simile.
La dimensione del dramma è già tutta nelle sei tavole dell’incipit: il ritmo ossessivo, tribale, avverte dell’ineluttabile (e inspiegabile: le vie del destino e della divinità non lo sono mai) arrivo del “Giorno del giudizio.” Quattro tavole quasi identiche in rapida successione, mute se non per la medesima assordante e montante onomatopea (KRAAANG!). Un enorme pugno contro una parete di metallo, sempre più grande, sempre più efficace. Uno degli elementi convincenti dello scontro Superman/Doomsday è proprio la mancanza di background di quest’ultimo: un personaggio di pura brutalità che esce fuori dal nulla e riduce lo scontro a pura violenza fisica. Senza motivazione, senza storia, la cui immensa forza non ha spiegazioni pseudoscientifiche (che arriveranno solo anni dopo), costringe Superman al livello del suolo, mettendolo faccia a faccia con il prezzo finale della sua incrollabile morale: finalmente una effettiva, dolorosa, perfino umiliante mortalità. Alla fine del prologo, la perfetta simmetria di Doomsday (di cui ancora non sappiamo nulla, neppure il nome) che emerge dalla Terra in un DOOM sonoro e presago, e di Superman che si innalza in cielo. Nulla che non fosse già stato visto probabilmente. Il ricordo va subito al DOOM del ciclo di Thor di Simonson. E non a caso in fondo, perché a firmare la sceneggiatura dell’episodio è Louise Simonson, la moglie di Walt… Fedele a questo inarticolato pronostico, la tragedia, a densità crescente troverà il suo climax in uno scontro fisico brutale al centro di Metropolis, fra l’uomo d’acciaio e Doomsday, personaggio privo di background e creato per l’occasione. Una sorta di deus ex machina ribaltato, che irrompe all’inizio del dramma e ne determina la fine, provocandone sia lo svolgimento che l’amara conclusione. Nella sua entrata in scena Superman viene presentato nella sua veste canonica, di sentinella della libertà, della sicurezza e del sogno americano. Impegnato nello sgominare una evasione di massa di super-criminali, un racconto di ordinaria follia meta-umana, in cui la “sentinella della libertà” ripristina con facilità l’ordine costituito. La tavola 23 però, in una sequenza apparentemente casuale, sembra già offrire una possibile chiave di lettura per l’intera saga. Convinto della sua colpevolezza, Superman aggredisce Charlie, l’informatore al quale si deve l’allarme e la notizia dell’evasione. Tocca a Lois Lane salvare Charlie, in una vignetta dalla efficacia grottesca: Lois prende a calci Superman, intimandogli con forza di fermarsi e spiegandogli la verità. L’eroismo, cieco nella sua eccedenza, ha commesso un errore. La forza può colpire tanto i giusti quanto i criminali, ed è compito della stampa ristabilire la giustizia, riportando la verità. Ma ciò è possibile solo se il potere fa riferimento agli stessi valori collettivi, se è disposto ad ascoltare la voce della comunità. Se in altri termini si pone al servizio della collettività, e non al proprio. Questo auto-limite dato dalla consapevolezza emotiva dell’altro, è la sottilissima linea di demarcazione che separa, nella narrativa eroica, l’eroe dal villain, il cavaliere dal drago. Una linea sottile, spesso impercettibile, che se osservata troppo da vicino non può non destare inquietudine… È la stessa dicotomia bene/male che attraversa tutta (o quasi) la narrativa canonica di Superman, escludendo ovviamente le decostruzioni, che funzionano proprio ribaltando questa logica, dimostrandone paradossalmente l’esistenza. Chiunque si metta contro superman è un villain, proprio perché lo sfida, mettendo in discussione l’incarnazione di ciò che difende: libertà, giustizia e sogno americano. Una visione rassicurante nel suo imperfetto e irrazionale manicheismo: esistono il bene e il male, entrambi sono riconoscibili, ma il primo vincerà sempre… perché siamo noi. Superman è così invincibile perché la fede nella propria ragione è incrollabile.
La cosa interessante è qui capire con quali mezzi ciascuna nemesi pone la sfida. Chiedo scusa in anticipo per l’estrema semplificazione della storia editoriale del personaggio, brutalmente sintetizzata per motivi di spazio. Le due nemesi più famose di Superman sono personaggi strategici, legati all’intelligenza, alla conoscenza e alla tecnica: Lex Luthor e Brainiac. Entrambi oppongono alla vitalità naturale, innata di Superman, conoscenza, preparazione, premeditazione, inganno, tecnologia. Da qui l’uso costante di strumenti a base di kryptonite, soli rossi, ecc ecc. Da qui la necessità di spiegare cerebralmente ogni mossa, sulla base di una pseudo-scienza finzionale, creata per l’occasione. In fondo persino Batman, l’alleato di sempre, gli si contrappone idealmente e concretamente (In Dark Knight returns ad esempio) utilizzando queste stesse armi. Queste contrapposizioni potrebbero essere per altro l’ultimo residuo dell’originale anima “luddista” di Superman, individuata da Grant Morrison nel suo Supergods. Nel nostro caso tutte queste spiegazioni non ci sono, perché non servono. Così come non serve la kryptonite. Ed è questo che, facendo emergere le irriducibili individualità al centro del conflitto, costringe a osservare con inquietudine la sottile linea rossa che le separa. Entrambi i personaggi sono ridotti alla loro eccedenza mostruosa e inspiegabile, divina nel senso più distruttivo, oscuro e incontrollabile del termine. È esattamente questo che conferisce potere al racconto. In questo caso il protagonista non viene privato dei suoi poteri o messo in trappola. Non deve (e non può) aggiungere l’intelligenza all’eccedenza del suo potere, né dimostrare altro che la sua forza. È la sua eccedenza vitalistica ad essere messa alla prova, facendo emergere nella sfida lo scarto fra la sua inarrivabile individualità e l’amorfa, indifesa collettività. Superman viene costruito come ultima speranza di un mondo indifeso, proprio nel momento in cui le sue possibilità di successo vengono messe in dubbio. La sua morte risulta così, grazie soprattutto alla contestualizzazione esterna, fornita dalla sua notorietà culturale, come l’estremo e necessario sacrificio di un semidio fondativo. Questo spiega perché l’incertezza dell’intera sequenza dello scontro e della morte, contrapposta al consolidato mito della sua invincibilità, sia riuscita a oltrepassare i confini delle tavole, arrivando a segnare in profondità l’immaginario collettivo. Ne è prova, ancora una volta paradossale, il pessimo tentativo di ricreare quel pathos nell’ultimo BatmanVSuperman… Un fallimento evidente, dovuto proprio all’avere completamente ignorato gli elementi caratterizzanti della storia originale.
Nel finale del poema Beowulf l’eroe, combattendo contro il drago allontana gli alleati impauriti. Lui solo, e nessun altro, è in grado di affrontare la sfida, che questa volta lo porterà alla morte. Esattamente come ne La morte di Superman, in cui lo scontro decisivo avviene solo quando il mostro ha già sconfitto l’intera comunità meta-umana targata DC: di fronte alle sfide affrontate da Beowulf/Superman (e da qualsiasi altro eroe eponimo), perfino gli altri grandi guerrieri sono inutili. Se questo vi ricorda qualcosa è perché la stessa dinamica si ripete in molta della narrativa pop contemporanea. Prendete un manga come Dragon Ball (che a Superman è decisamente debitore): è solo il protagonista a poter mettere la parola definitiva all’ultima minaccia che via via si presenta. Questo meccanismo, non nuovo ma anzi tradizionale, innesca nel racconto maistream contemporaneo un circuito ripetitivo e rassicurante potenzialmente infinito, a meno che non si accetti la morte effettiva del protagonista, ed un (eventuale) passaggio di testimone. La fine del poema è infatti necessariamente la morte dell’eroe. Eliminandola ogni ciclo narrativo, per quanto ben scritto o risalente, si trasforma in una mera ripetizione del tema. Esattamente ciò che avvenne con la (commercialmente prevedibile) resurrezione dell’ultimo figlio di Krypton…