Mi chiedono di andare a scuola perché dovrei essere un esempio. Di portare il mio strumento chiave: l’arte. E il corpo, penso io. Arrivo la mattina presto, carica come una fionda. Fiuto l’aria densa di via vai. Individuo la stanza dove resterò per un’ora. Entro. C’è sorpresa, spesso indifferenza. Comunque a me elettrizza perché ho un incontro garantito con almeno venti facce fresche e ancora in formazione. Mi stuzzica la cosa. Mi sento come un guerrigliero che deve prendere la mira, o un attore sul palcoscenico con l’attenzione che gli arriva addosso. Forse anche un po’ usata. I ragazzi dovranno sentire tutte le parole che dalla mia bocca usciranno, e il loro significato. Essere ascoltati è eccitante per me. Forse è lo spazio di un protagonismo insolito a farmi questo effetto. In queste stanze ci sono corpi innanzitutto, che ancora dormono, data l’ora. Ai loro piedi stazionano zainetti e giubbetti abbandonati. Poi, rasoterra, vedo gambe incrociate e tante tante scarpe che danno leggerezza. Mentre ho l’impressione che i capelli, quelli, pesino tantissimo, come una massa di pensieri accumulati li rendesse già molto stanchi alla loro età. Le capigliature trasmettono un’idea di caos.Incomincio a girare quasi subito, come una giostra lungo le file, tra i banchi. Mi piace avvicinarmi fin quasi ad andare loro addosso, come sforzando un incontro violento. Certo, questo serve a me che respiro i loro corpi e ne ricevo piccole onde d’urto che si espandono in vibrazioni lievi. Sì, è eccitante.Poi devo incominciare a parlare e oltre a dire chi sono, concatenare la mia storia in pochi minuti e vedere l’effetto che fa, il silenzio che l’accompagna. Per loro sono una sconosciuta. Ma conta, conta moltissimo che io mi muova, che porti qua e là questo mio corpo a bordo di ruote, che cigolano sul pavimento di gomma. E raccontare che quando si muore si può anche risorgere, che quando si entra (o si piomba) nei bassifondi, e lì si resta a lungo, si diventa come bestie e come bestie, quando si riemerge la luce fa male, ferisce spietata. È come appartenere ad un’altra specie, si è comunque diversi. Non si può dire rimessi a nuovo, ma certo è come seguire altre traiettorie. Lo dimostra il fatto che il giro nella stanza non si ferma finché non ho finito di dire. Ebbene, il mio corpo non cammina, ma lo fa tutto il resto. Penso a come dimostrare che c’è una vita che continua a fluire anche in un corpo fermo, e come questa incredibile vita abbia una forza tragica e indomabile di aprirsi varchi anche di fronte alla più dura roccia. Come, in fondo, sia la vita protagonista e non tu soggetto che la vivi. Come accada di doverla cavalcare, senza sella, senza redini, a filo di pelo. Pelo rude e dolce a volte. E a queste creature semi dormienti come augurare di capire la cavalcatura, il cui riposo è questo momento sui banchi: lo zoccolo duro del loro fortino a cui stanno ancorati pensandosi al sicuro. Una sicurezza mai messa alla prova finora. Ecco, come penso di poter dire questo? Studiare la tragedia, può preparare alla tragedia? Ascoltare l’avventura, prepara all’avventura?Poi indico le mie creazioni, spiego i colori, le forme riassunte in quadro, e spiego come nascono, perché, il mio affetto, e chiedo loro di fare altrettanto, di provare a creare qualcosa che ancora dorme in loro. Di cercare nella loro mente un demone, di esplorare con l’istinto la loro immaginazione e tirare fuori da questo territorio trascurato, ancora inespresso, ciò che credono di non avere. Deve essere difficile fare questo salto, è una cosa che nessuno chiede loro di imparare. Non sono addestrati a farlo, ma io sì, in questo mi sono esercitata a lungo, avanti e indietro sulla strada del mito, incontrando ossessioni, fantasmi, e tutto un corollario di sentimenti sulla soglia dei morti.So che è utile farlo, anche se la vita di superficie e ordinaria sembra non chiederlo. In effetti, mi interrogo se per me questa operazione sia essenziale dato – ed è evidente – che vivo ad un altro livello e a seconda della posizione cambiano le cose di cui hai bisogno.Allora spiego che c’è un continuum che le unisce le cose, e le rende basiche e sublimi insieme, ed è in questa loro unicità che – cogliendola tutta, interamente – sta il senso, se senso si cerca. In fondo, io sono qui per questo, per il loro senso e per il mio. Sono qui per dire che dopo aver trapassato la vita con l’istinto, il senso di essere vivi ci ritorna. Spiego che è una fortuna avere questa pietra miliare che sa misurare profondità e altezze. Aiuta a prendere direzione, a orientarsi. Ogni tanto si alza una voce timida, qualcuno domanda, i più stanno in silenzio e mi guardano. Non so nemmeno se hanno voglia di vedermi, non so se resta qualcosa di questi brevi incontri. Quando esco è un sollievo, è come se avessi doppiato l’universo. Sono stanca, ho seminato con tutta l’intensità che potevo. E le terre che stanno in questi corpi, aride o umide che siano, escono anche loro per una pausa. Mi passano accanto più o meno indifferenti, come prima. O forse un po’ meno di prima. Mentre mi allontano lungo i corridoi per andarmene o entrare in un’altra aula, sento la domanda, vera, che mi sale timida e profonda, ferma in gola: datemi affetto, senso, significato.
Clara Lunardelli è nata a Trento nel 1961, vive e dipinge a Mattarello (sobborgo della città).Nel 1982 a causa di una sopraggiunta disabilità e in risposta a una forte sofferenza fisica e psichica, inizia un percorso creativo che la porta ad approfondire il rapporto tra arte, inconscio e immaginario. Ha esposto le sue opere in mostre personali e collettive perlopiù in ambito regionale.È attiva da 20 anni in cooperative sociali che promuovono una nuova cultura della disabilità e in progetti di sensibilizzazione nelle scuole.Passione sociale e passione creativa si intrecciano e alimentano un viaggio parallelo fra osservazione critica e poetica dell’eros.Scrive per il giornale online Onda Musicale. È co-fondatrice di Paspartù – fotografia arte cultura e del Circolo culturale Ipazia.