Tra la produzione pirandelliana, la commedia “La ragione degli altri” è spesso considerata, a torto, marginale o comunque secondaria rispetto a quelli che sono i capisaldi del suo Teatro. Eppure questa commedia, andata in scena nel 1915, rappresenta, probabilmente, il punto di svolta della produzione del grande drammaturgo siciliano. E’ la storia di un tradimento, con tutte le componenti che esso implica. La moglie, ormai assuefatta al comportamento del marito che comunque vive ancora con lei; il di lei padre, che cerca di mediare con scarso risultato; il marito, incerto, insicuro, fallito nella professione; l’altra donna, ed una bambina, la figlia che quest’ultima ha avuta con il fedifrago. Tutto nella norma di quella che potrebbe essere una “normalissima” vicenda familiare, ma la genialità dell’autore se ne inventa una delle sue. La moglie, resasi conto che il marito non ama più l’altra donna ma è legato ad essa solo per l’affetto intenso per la bambina, notata nel marito stesso una volontà malcelata di ricostruzione della coppia “legittima” e vista la situazione di indigenza nella quale la sua rivale vive, decide di intervenire con forza. Così, chiede all’amante di cederle la piccola e di far in modo che essa possa crescere in una famiglia “legittima”, prendendo il nome del padre. Qualsiasi donna, ad una richiesta del genere, reagirebbe in maniera sconsiderata, e forse estrema, ma la nostra si comporta diversamente. Dopo una prima reazione dura di rifiuto, resasi conto che anche il suo amante vuole la stessa cosa, decide di separarsi dalla bambina. Sacrificio, rassegnazione? Forse, ma dietro tale comportamento, si nota forte la volontà di cedere a quella soluzione che assicura una sorta di riconoscimento da parte della società, incarnata dalla coppia legittima, nei confronti di chi cerca, con il suo comportamento la pacificazione e un modo per vedere riconosciuta, proprio da quella società che condanna un comportamento “diverso”, la propria forza interiore sublimatasi nel sacrificio estremo. E’ il superamento, probabilmente, di quel nichilismo che permeava le commedie precedenti di Pirandello, laddove la società, con le sue regole, imbrigliava l’uomo e lo costringeva ad un vivere ipocrita. Ne “La ragione degli altri” no. La donna amante, condannata dalla sua posizione “illegittima”, afferma forte la sua volontà di riconciliare quanti fanno parte della sua vicenda, assicurando un futuro alla figlia, che rappresenta forse proprio quel futuro dell’umanità che tanto incerto sembrava nel 1915, alle soglie della grande catastrofe della Prima Guerra Mondiale. Fin qui il capolavoro pirandelliano, che nella visione di Tato Russo acquista un valore forse meno articolato, più semplicistico, ma non meno vero ed efficace. Il regista, che crea nella messa in scena quel “Teatro nel Teatro” che Pirandello tanto amava, ripropone al pubblico una prova della commedia pirandelliana; dove gli attori, forzati in principio da una maschera, si liberano di essa, fino a diventare più veri, più vicini ad una realtà cruda, grassa. Ciò quasi a voler riaffermare che la problematica dei rapporti tra gli uomini, in una visione di stereotipi comportamentali, non è mutata per nulla, se non in un linguaggio meno filosofico e forse più volgare. Quelle che sono mutate, invece, sono le prerogative di una società che non riconosce sacrifici, perché forse non ne ha bisogno. Una società dove sembrerebbe che tutti i diritti siano sanciti e riconosciuti, ma che in realtà detta delle soluzioni che mal si conciliano, spesso, con le vere esigenze dei più deboli.
Così la bambina, che in conclusione sparisce in una nuvola di fumo, sovvertendo il finale originale della commedia, descrive proprio l’incapacità di una società “modernizzata” di dare delle risposte a quelle che sono le problematiche degli anelli più deboli della sua stessa catena. In tale accezione, “La ragione degli altri” , forse la commedia della speranza di Pirandello, diventa una cruda affermazione di sconfitta dell’umanità. Facendo un parallelo con Eduardo, che nella prima stesura faceva finire la sua “Napoli Milionaria” con la frase “Adda passà a nuttata”- e che nel 1977 ne riscrisse il finale per la versione “operistica” della stessa, musicata da Nino Rota, facendo dire al protagonista “La guerra non è finita, e non è finito niente” – Tato Russo ci da la possibilità di attualizzare il pensiero pirandelliano rispetto ad una società mutata, facendoci capire che tanto ancora ci sarebbe da fare per assicurare ai nostri figli un futuro migliore, e che forse quella nottata è dietro all’angolo.
Tutti bravissimi e perfettamente calati nel gioco della regia gli attori, belle le scene di Peppe Zarbo ed i costumi di Giusi Giustino. Ed, infine, un riconoscimento particolare va proprio a Tato Russo, il quale si dimostra, ancora una volta, artista a tutto tondo, capace anche di ironizzare su se stesso, sulla ragione della sua vita, il Teatro, sul mondo del palcoscenico, su quelle immutabili “convenienze ed inconvenienze teatrali” che fanno di ogni teatro un luogo magico. E se Russo finisce la serata dicendo “Nun se po’ fa cchiù chisto mestiere”, noi rispondiamo: si vada avanti Maestro, ad maiora! Alla prossima, e grazie!