Quarant’anni anni fa, a Vermicino, vicino a Roma, moriva Alfredino Rampi, il bambino di 6 anni, caduto accidentalmente in un pozzo artesiano in campagna, dove si era recato con la famiglia. Come sappiamo, la Rai seguì il caso con una diretta lunga 18 ore e tutta l’Italia, per tre giorni, si fermò, con il fiato sospeso, davanti al piccolo schermo. La vicenda del ”pozzo maledetto”, infatti, cominciò alle 19 del 10 giugno 1981 e terminò, purtroppo con l’esito drammatico della morte del piccolo, il 13 giugno. L’episodio è, senza dubbio, uno dei fatti di cronaca che più hanno segnato in modo indelebile la memoria collettiva del nostro Paese.
Il pozzo artesiano era profondo circa 60 metri, con un’apertura larga non più di 40 centimetri e i soccorsi, dunque, furono fin da subito complicatissimi. Si cercò di calare una tavoletta di legno che però si incastrò a 24 metri e, quindi, si pensò di scavare due tunnel a fianco, per raggiungere il punto esatto in cui si trovava il bambino. Intanto, un microfono sensibilissimo fu calato ad alcuni metri di distanza dal bimbo e così Alfredino comunicava con la madre. Il vigile del fuoco Nando Broglio gli parlò con un megafono per 24 ore. Sul posto era arrivato anche l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini che, a sua volta, si fece dare il microfono e provò a incoraggiare il bambino. La perforazione del terreno riuscì ad arrivare al punto in cui si sarebbe dovuto trovare il piccolo ma, purtroppo, egli era scivolato a oltre 60 metri di profondità, probabilmente per le vibrazioni del terreno durante gli scavi. L’unica soluzione fu dunque quella di calarsi nel pozzo e ci provò Angelo Licheri, chiamato ‘Uomo Ragno’. Il volontario riuscì a resistere 45 minuti appeso a una corda a testa in giù e parlò ad Alfredino raccontandogli favole, mentre nel frattempo gli toglieva il fango dagli occhi e dalle labbra; sfortunatamente, però, l’uomo non riuscì a tenerlo tra le braccia e a riportarlo in superficie. Poi ci provò lo speleologo Donato Caruso che lo raggiunse anche lui senza riuscire a prenderlo. “Sfiorai i suoi occhi con le punte delle mie dita. Io ero in verticale a testa in giù. Lui era incastrato e ricoperto di terra. Gli dissi che gli avrei regalato una bella bicicletta”, ha detto Licheri in un’intervista di un paio di anni fa a Il Giornale. L’uomo, che oggi ha 76 anni, è ancora tormentato dal senso di colpa per non essere riuscito nell’impresa.
All’alba del terzo giorno, dopo i vari tentativi non riusciti, il bimbo morì e subito seguirono le polemiche per la conduzione dei soccorsi. Non fu risparmiata neppure la povera madre di Alfredino, accusata, in maniera assurda e totalmente inopportuna, da una parte dell’opinione pubblica di essersi allontanata per cambiarsi d’abito e di non essersi ”disperata abbastanza” in maniera evidente. In realtà, ella fu forte e dignitosa nel suo dolore e fu, poi, ancora più determinata nel chiedere a gran voce che tragedie simili non si ripetessero, che l’innegabile improvvisazione nei soccorsi venisse colmata e superata da un sistema più efficiente. La mancanza di organizzazione e coordinamento degli aiuti fece, infatti, capire l’esigenza di una nuova struttura organizzativa per poter gestire le situazioni di emergenza e, negli anni successivi, ciò portò alla nascita della Protezione Civile, che, all’epoca, ancora solo sulla carta.