Il 18 agosto del 2009, moriva a Milano, presso la clinica privata Don Leone Porta, all’età di 92 anni, Fernanda Pivano, detta Nanda. Traduttrice, critico musicale, giornalista, saggista, ella ha rappresentato una delle figure più importanti nello scenario culturale italiano, contribuendo enormemente alla divulgazione della letteratura americana nel nostro Paese. Nata a Genova nel 1917, si trasferì poi, con la famiglia, a Torino dove frequentò il Liceo Classico Massimo D’Azeglio. Studentessa brillante, si laureò prima in Lettere, con una tesi su Moby Dick di Melville, premiata dal Centro Studi Americani di Roma, e poi in Filosofia, divenendo assistente, per diversi anni, del grande e conosciutissimo professore Nicola Abbagnano.
Ma fu proprio durante gli anni del liceo al Massimo D’Azeglio che la giovane conobbe quella personalità destinata ad influenzare in maniera importante la sua produzione ed espressione intellettuale. Ci riferiamo ad un gigante della letteratura italiana, Cesare Pavese, il quale, a 26 anni, fu appunto il professore della Pivano. Fu ella stessa, nei Diari del 1917-1973, a raccontare il primo incontro con quel giovane docente, tra i banchi di scuola, sottolineando di aver avuto il privilegio di ascoltarlo nelle letture di Dante e Guido Guinizelli. Diversi anni dopo la fine dell’esperienza liceale, quando Pavese ritornò dal confino fascista in Calabria, nel 1938, questi due pilastri del Novecento si incontrarono nuovamente. Questa volta, però, oltre alla stima reciproca, si aggiunse anche l’amore che lo scrittore iniziò a nutrire per quella che era stata una sua allieva. Tra di loro cominciò un fitto scambio di romanzi e poesie di vari autori, oltre che di intense lettere private, che portò la Pivano ad entrare in contatto con le opere di Ernest Hemingway, Walt Whitman, Sherwood Anderson ed Edgar Lee Masters. Pavese le dedicò anche tre celebri componimenti poetici, quali Mattino, Notturno ed Estate. Tuttavia, la donna non ricambiò pienamente l’amore, tanto da rifiutare le due proposte di matrimonio fattele, una il 26 luglio 1940 e l’altra il 10 luglio 1945, proprio le due date stampate sul frontespizio del romanzo di Pavese, Ferie d’agosto, con una croce accanto per evidenziare il responso negativo.
Passando ad analizzare, per grandi linee, la sua attività letteraria, essa cominciò, nel 1943, con la traduzione dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. La sua carriera di traduttrice, poi, si avviò con celebri romanzieri americani, come Faulkner, Hemingway, Fitzgerald, Anderson, Gertrude Stein. Ad ogni traduzione la scrittrice era solita aggiungere pure saggi critici sull’opera e l’autore. In particolare, ella si impegnò nella divulgazione e nella traduzione delle opere della cosiddetta “beat generation”‘(A. Ginsberg, W. Burroughs, L. Ferlinghetti, J. Kerouac, G. Corso, quali David Foster Wallace, Jay McInerney, Chuck Palahnjuk, Jonathan Safran Foer, Bret Easton Ellis.) e fu promotrice del minimalismo degli anni Ottanta (D. Leavitt, J. McInerney, B. E. Ellis). La Pivano, oltre alla fervida critica letteraria e alla saggistica – numerosissimi sono i titoli -, si distinse, però, pure nella narrativa con opere, ricche di riferimenti autobiografici, come Hemingway, 1985; Cos’è più la virtù, 1986; La mia kasbah, 1988; Dov’è più la virtù, 1997; I miei quadrifogli, 2000.
Da menzionare, di certo, sono anche il suo speciale rapporto di amicizia e stima professionale prorpio con Ernest Hemingway (la Mondadori pubblicò la sua traduzione di Addio alle armi) e poi, in qualità di critico musicale, con Fabrizio De André, che definì “il Bob Dylan italiano”.
Diversi sono i premi che le sono stati riconosciuti nel corso degli anni, come il prestigioso Grinzane Cavour, e il suo enorme patrimonio documentario e librario è confluito nella Biblioteca Riccardo e Fernanda Pivano inaugurata a Milano nel 1998.
Fernanda Pivano, insomma, è stata una intelletuale di elevatissimo spessore e il nostro compito è quello di omaggiarla e ricordarla, a maggior ragione in questo nostro contesto generale dove, finanche nel settore letterario e dell’editoria, si tende ancora e colpevolmente a trascurare l’enorme contributo offerto da figure femminili.