Una storia apparentemente lontana, tratta dall’omonimo romanzo di Vince Flynn, che invece può toccare a ognuno di noi. Quantomeno dal punto di vista del dolore.
Mitch Rapp, 25 anni (interpretato da Dylan O’Brien, finalmente uscito dagli invalicabili labirinti di Maze Runner), è cotto della sua fidanzata, cui chiede di sposarlo in riva al mare, mentre gira un piccolo video del momento.
Tuttavia, un gruppo di fondamentalisti islamici irrompe sulla spiaggia facendo decine di morti. Un attentato terroristico firmato col sangue di tanti innocenti, fra cui la sua amata. La disperazione più nera lo avvince e, da quel momento, l’unica ragione di vita per Mitch diventa quella di vendicarne la sua morte.
Paradossalmente, come accade sovente di fronte ai momenti della vita che lasciano tratti indelebili, la mente gli si apre. Raggiungendo insospettabili livelli d’efficacia.
Allena ogni giorno il fisico fino a livelli noti solo ai frequentatori di Tana delle Tigri, riesce a imparare l’arabo praticamente on-line e a correlarsi con il tessuto fondamentalista fino a carpire preziosissime informazioni sulla loro localizzazione. Al punto di esser capace di individuare l’esatta posizione del mandante del genocidio che aveva cancellato dal mondo anche l’altra metà del suo cielo, intrufolandosi in una cellula terroristica.
Le sue inaspettate abilità sono monitorate online (e a sua insaputa) dalla CIA: che, nel seguirne la scia fino a Tripoli, finisce per reclutarlo. Da quel momento in poi, nella sua esistenza troveranno spazio solo missioni di alta pericolosità. Un nuovo superagente segreto ha appena ricevuto il suo battesimo.
Tuttavia Rapp, come verrà semplicemente chiamato da quel momento, è ancora una sorta di diamante grezzo. Indisciplinato, scorbutico, per quanto, paradossalmente, pieno di enorme “talento”. La sua mente ha rimosso ogni laccio e lacciuolo con il cuore. E’ diventato una macchina. Dotato di una ferocia e una determinazione forse uniche.
Ma va inquadrato. Le missioni che lo attendono sono sin da subito di “Livello 1”. Ha quindi bisogno di un mentore-chioccia. La scelta ricade su Stan Hurley, veterano della Guerra Fredda, interpretato da un sempre inquietante Michael Keaton. E che, onestamente, è il vero fuoriclasse del film, a fronte di un O’Brien ancora troppo acerbo al di fuori di ruoli che non lo releghino unicamente alla condizione di belloccio a uso e consumo delle teen-ager.
L’elemento pregnante del film consta nella perenne contraddizione che, ove apparentemente occorrano nervi saldi e giudiziosità, la maggiore efficacia viene fornita da quei soggetti militari e paramilitari che sfuggono a qualsiasi elementare concetto di buona condotta. Unitamente alla triste constatazione che, spesso, i superiori prepongono la prosecuzione di una missione rispetto alla necessità di preservare l’umanità e la dignità dei propri uomini. Gente a terra, lasciata dov’è, a fronte del superiore interesse del proprio organo direttivo. In tal senso, ci sono almeno un paio di scene che prendono tanto alla bocca dello stomaco quanto attentano alla tenuta delle corde del cuore. Ma per rabbia, più che per dolore.
Il refrain di Hurley, che “niente deve diventare una questione personale”, diventa una comoda scusa per non assumersi la responsabilità dei mostri che ha contribuito a creare. Tipico del superiore senza scrupoli. Plasmano esseri che con l’umanità finiscono per perdere ogni contatto visivo ed emotivo. Per questi la vita diventa un perenne confronto con gli estremi, senza mai guardare nel mezzo. Rosso equivale a missione fallita, Verde a missione compiuta. Non ci sono altre sfumature, non c’è più spazio per le emozioni.
Il film si basa su un tema molto coraggioso, principalmente legato all’autocritica delle propria politica interna e internazionale (con ovvio riferimento agli United States, secondo tale interpretazione incapace di prevedere quanto reagire alle conseguenze delle proprie azioni. Contestualmente inviando propri uomini in una condizione di sbaraglio totale, ovvero senza troppo premurarsi che facciano ritorno a casa.
In fondo, Rambo docet. Il cinema d’azione yankee si è assai soffermato su tale tematica, tuttavia non essendo sempre capace di trasfondere in significative sequenze filmiche né il dolore né la frustrazione dei plotoni militari inviati agli antipodi.
American Assassin, in tal senso, è un po’ limitato. Tende un po’ troppo allo splatter da videogame, reggendosi su sequenze veloci al punto che si fatica a comprenderne le reali dinamiche.
Sangue a piene mani, torture ed esplosioni, in una sequenza pressoché infinita in cui Rapp esce sempre vincitore nei duelli anche contro gruppi formati da dozzine di uomini alla volta.
Fino a scivolare spesso nell’inverosimile, anche per un film action come questo, dove non sempre, storicamente, è possibile basarsi sul rispetto di criteri razionali.
Desiderio di vendetta e patriottismo. Una miscela che comunque riesce ad accattivare sempre.
Anche perché, in fondo, affetti e appartenenza restano due valori da tenere in considerazione.
Specie quando occorre difenderli con ogni fibra del proprio corpo.