Antonio Franchini con ‘Il fuoco che ti porti dentro’ (Marsilio) ha vinto il premio letterario internazionale Elba-Raffaello Brignetti la cui 52/a edizione si è conclusa il 7 settembre al Teatro Napoleonico dei Vigilanti Renato Cioni, a Portoferraio (Livorno).
Con Franchini finalisti erano Donatella Di Pietrantonio con ‘L’età fragile’ (Einaudi) e Alberto Riva con ‘Ultima estate a Roccamare’ (Neri Pozza).
Le due giurie, quella letteraria e quella popolare, sommati i loro voti, hanno scelto l’opera, spiegano gli organizzatori, “che meglio rappresenta l’eccellenza letteraria contemporanea”.
Conosciamo meglio Franchini attraverso le sue opere.
Il fuoco che ti porti dentro
Il fuoco che ti porti dentro racconta la vita e la morte di Angela, una donna dal carattere impossibile. Una donna che incarna in maniera emblematica tutti gli orrori dell’Italia, nessuno escluso: «il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore…» Questa donna era la madre dell’autore. Il romanzo è un’indagine nella vita, nelle passioni e negli odi di una donna, alla ricerca di una spiegazione possibile. La forma è quella della commedia, il contenuto quello della tragedia. Quale esperienza manifesta o occulta, quale frustrazione, quale nascosta ferita può renderci tanto ostili, rabbiosi, refrattari a qualsiasi forma di pacificazione? Quale motivo, semplice o complesso, sta dietro la furia di Angela: la guerra che la segna da bambina? un padre morto troppo presto o una madre morta troppo tardi che le ha, a sua volta, infelicitato la giovinezza e la maturità? un atavico complesso d’inferiorità o l’appartenenza alla cultura del Meridione oppresso le cui ragioni Angela vorrebbe far valere contro l’odiato Nord usurpatore? Oppure, più semplicemente, il fuoco interno che la divora è privo di qualsiasi ragione come il cuore nascosto di un vulcano? Antonio Franchini, con maestria e misura, eccesso e discrezione, ha scritto un romanzo-memoir popolato di personaggi che circondano una protagonista sempre al centro della scena. Un’eroina eccessiva e imprevedibile, capace di alternare toni drammatici e ossessivi a momenti decisamente comici. È un racconto che mescola la commedia eduardiana al furore ctonio, l’urgenza di uno sfogo viscerale alle cadenze studiate di una messa in scena, di una vera e propria recita.
Quando scriviamo da giovani
I primi tre racconti del libro hanno come sfondo campi di calcio, aule di scuole, aule di università. Sono luoghi dove i protagonisti vivono immersi nella loro realtà e al tempo stesso come sospesi in altre dimensioni. L’ultimo racconto, che dà il titolo al volume, è la storia di un’amicizia, ripercorsa dopo molti anni: è un bilancio di furori e delusioni della giovinezza, fatto nel periodo della vita che dovrebbe essere quello dell’equilibrio e che spesso invece è soltanto quello del cinismo, o del rimpianto, o della dimenticanza.
Acqua, sudore, ghiaccio
“Acqua, sudore, ghiaccio” sono tre racconti lunghi con una voce narrante unica. Sono storie di uomini messi di fronte alla paura e al coraggio: a una rapida, a un pendio e a un avversario. Essi vivono quasi sempre chiusi nella prigione dei rischi e delle ombre che attraversano la mente, tra fatica, follia e smemoratezza, ma qualche volta li sfiora il bisogno di conoscere la ragione dei loro sforzi, il senso ultimo della loro recita e della loro sfida.
L’abusivo
Giancarlo Siani era un giovane cronista: la sera del 23 settembre 1985, i killer della camorra lo uccisero dopo averlo aspettato sotto casa per ore. Che cosa aveva scoperto? Che cosa aveva scritto di così pericoloso da essere punito con la morte? Siani aveva un contratto come corrispondente da Torre Annunziata per il quotidiano “Il Mattino” di Napoli, ma in realtà lavorava a tempo pieno come giornalista “abusivo” nella speranza di essere assunto. Franchini, coetaneo e concittadino di Siani, ne racconta il caso.
Signore delle lacrime
Con la tipica matrice della sua scrittura che fa della contaminazione una cifra stilistica originale, nel “Signore delle lacrime” Antonio Franchini incrocia il reportage narrativo di un viaggio in India con la quotidianità della vita occidentale, il pantheon induista con il materialismo del nostro mondo, creando un sovvertirsi nei ruoli di Oriente e Occidente, esotico e domestico (familiare), racconto e ricordo, indian food e gastronomia emiliana, finzione e sprazzi autobiografici. Una leggera meditazione sulla morte e un apparente bilancio sulla vita che ogni uomo di mezza età può accennare a se stesso, senza pretendere di farlo sul serio, ma lasciandosi attraversare da suggestioni, impressioni, letture, brividi di ricordi o di premonizioni, immagini di luoghi infestati da ogni forma di falsità e tuttavia impregnati di sacro in ogni più intima fibra.
Il vecchio lottatore
Un uomo rivede tutte le paure della sua vita nella gara di corsa della figlia; Francesco Esente discende il fiume in canoa per onorare lo spirito dell’amico scomparso; un vecchio lottatore sale sul ring un’ultima volta e, con la certezza della sconfitta incisa nei muscoli, riscopre il prodigio del combattimento. I personaggi di questi racconti vanno alla ricerca dell’istante perfetto in cui l’esistenza prende senso e si misurano con voragini di cedimento e di abbandono. Tutti provano a opporsi alla morte, ad aggirarla, evocarla, sbeffeggiarla; e guardano con ammirazione chi è già riuscito nell’impresa, soldati di una storia scolpita nella terra e negli oggetti, uomini con alle spalle una vita dedicata alla propria afición, che sia la corrida, la pesca, la lotta, la letteratura, o una qualsiasi ossessione accarezzata per ingannare il vuoto.A dieci anni dal suo ultimo libro, Antonio Franchini torna con un’opera che scompone e ricompone l’immaginario emingueiano; e con una lingua limpida e solenne rivela fragilità e paure dell’uomo contemporaneo, che solo quando smette di opporsi può trovare un proprio modo di stare al mondo, dove imperfezioni e sconfitte contano assai più di pregi e vittorie.Questo libro è per chi ha sfidato ignaro il gelo delle acque al Rionero, per chi ha capito che nella lotta non serve lo “sguardo della tigre” ma la fissità inquietante dell’occhio della gallina, per chi rimpiange il gesto impeccabile dei bambini quando fingono di morire nei loro giochi di guerra, e per chi vive da sempre con una consapevolezza acuta, una nostalgia preventiva, come vedesse prossima la fine del suo mondo.