Ogni tanto, a cadenze pressoché cicliche e sotto forma di veri e propri blocchi massivi, i “Disaster Movies” approdano sul grande schermo, delittuosamente rappresentandoci che – siano o meno di questa epoca, di questo mondo o di questa dimensione – sono ben più di una le genie aliene, le specie animali, le stirpi sovrannaturali et similia (oltre, ovviamente, a Madama NATURA) che, se solo volessero, non ci metterebbero nulla a ridurci a poltiglia. Al contempo avvertendo, in ragione di una nostra eventuale scomparsa, qualcosa di poco più rumoroso dello scoppio d’un petardo.
Proprio di recente, abbiamo approfondito in A Quiet Place tutte le vicissitudini legate a cosa bisognerebbe imbastire per sopravvivere in un mondo dove non occorreva fare alcun rumore, pena la morte immediata e violenta ad opera di entità violente e piene di rancore.
Qui, in Bird Box – pellicola che atterra sulla piattaforma Netflix portando in dote una regista come Susanne Bier, su libero adattamento dell’omonimo best seller di Josh Malerman – volendo, si alza ancor più l’asticella. Perché, per rimanere vivi, non bisogna utilizzare la Vista. Si, perché fuori dalle case, una maligna entità, diffusasi ancor più rapidamente della Peste, ha infettato la gente di ogni parte pianeta, istigandola a effettuare deliranti suicidi di massa, ciò comportando una rapida ed omogenea decimazione della popolazione mondiale.
Malorie – interpretata da una Sandra Bullock che ha ripreso notevole quota nel panorama attoriale hollywoodiano (ricordiamo anche il recente Ocean’s Eight, dove interpreta il ruolo della sorella del compianto Danny Ocean, in un Thief Movie che inverte la rotta dei precedenti Eleven, Twelve e Thirteen, facendo virare la trama completamente al totally female) – è incinta al nono mese, ed è tra i pochi sopravvissuti.
Dopo aver perso la sorella (Sarah Paulson), alla guida del SUV con la quale l’aveva appena accompagnata a fare un’ecografia, riesce a mettersi in salvo dopo il violento incidente e a barricarsi in una casa insieme ad altre persone. Nell’assurdo contesto venutosi a creare, anche altri grossi calibri come John Malkovich (il padrone di casa) e Trevante Rhodes (vero astro nascente, di recente visto, in rapidissima successione nell’ultimo biennio, in Moonlight, Il Codice del Silenzio, 12 Soldiers e The Predator – peraltro, n.d.r., anche ex velocista) cercano di ragionare sul da farsi, quantomeno per spostare in avanti le lancette che scandiranno la loro ultima ora da vivi.
Pur agghiacciata dalla situazione – nella stessa scena, è davvero tremendo il modo in cui si suicida la padrona di casa, uscita proprio per prestarle soccorso – Malorie cerca di elaborare una strategia per sopravvivere in un mondo in cui basta tenere gli occhi aperti per morire. Con questi organizza una sortita presso il supermercato più vicino – seguendo un percorso inverso rispetto a quel che accade in The Mist (film del 2007 tratto da un racconto terrificante di Stephen King); non potendo usufruire della piena visuale del parabrezza, la “puntata” al magazzino si concretizzerà verniciando i vetri del mezzo a motore con colori opachi e riponendo ogni speranza nella piena funzionalità del relativo GPS, ciò comportando l’insorgere di impatti e di variegate circostanze, vietate ai deboli di stomaco.
Il film si svolge in più tempi, nei quali due fra questi fanno la parte del leone in seno alla cronometria filmica. Quello rappresentato all’inizio è relativo alla fase in cui l’inquietante entità ha ormai acquisito il potere di permeare l’intero pianeta come una pellicola trasparente, facendo impazzire chiunque privo di idoneo bendaggio. Segue poi, alternandosi col predetto pezzo della narrazione, quello in cui la donna, alcuni anni dopo, deve portare in salvo i suoi due bambini. Costretta a farlo bendata e a bendare anche i ragazzini, cui cerca di impartire rigorose istruzioni attraverso frequenti messaggi monitori. La fuga si andrà sviluppando lungo le acque agitate di un fiume, talvolta finendo per combattere, lungo lo stesso (a colpi di remi, coltellate, cazzotti, calci e morsi), contro le presenze naturali e sovrannaturali che si annidano subdole nelle acque; qualcuna delle quali farfuglia di “aver visto qualcosa di bellissimo, che chiunque altri dovrebbe guardare e ammirare”.
Beh, in effetti, il “Core” della pellicola è tutto qui. Non appare nulla di rivoluzionario, laddove lo schema prevalente si attaglia allo schema dell’imponderabile e del cataclisma divino, più forte della tenacia della maggior parte di noi e contro cui nulla si può, se non cercare di arginarne la vorace furia distruttiva; con quest’ultima che va a tradursi, per lo più – e “a vantaggio” del senso di inquietudine che lo spettatore assaggia istante per istante, ovvero l’ingrediente principale del film – nella proliferazione di scontri fra i sopravvissuti, oltre che dar luogo a una pioggia di cadaveri indolenti in uno a cumuli di auto sfasciate disseminati lungo le poche strade funzionali alla fuga. Ove non già sature dall’angosciante alienazione di orde di folli (magari appena scappati dai manicomi e motivati dal desiderio di condividere la loro pazzia). E sempre che non si abbia l’accessoria sfortuna di incappare pure contro disgustosi insetti giganti, oggetto di bizzarre mutazioni dell’ultimora.
L’eroina Bullock gioca un po’ a fare la Lara Croft, abile a maneggiare armi da taglio e da fuoco degne del miglior Rambo, pur scontando l’aggravio psico-fisico di uno “stato interessante” per almeno metà della pellicola.
Se v’è una MORALE nel film? Beh, a dire il vero se ne potrebbero trovare più d’una. Ma, tutto sommato, diciamo che, fra queste, la più accreditata sembra quella connotata dalla prepotente voglia di puntare l’indice contro l’ossessione del voler vedere a tutti i costi; spesso, anche ciò che, in concreto, nemmeno ci interessa.
Al di là, forse, dell’appagamento di evitabili (quanto dannose) libidini voyeuristiche.
Sempre nell’auspicio di poter ancora ambire a un savio ritorno alle origini – di cui ancora si fatica ad abbinare una DeLorean dotata tanto di sufficiente capacità di persuasione quanto di adeguata capienza – che ci faccia comprendere quanto è superflua la maggior fetta di ciò di cui l’essere umano ha voluto e preteso circondarsi.
Essere umano che, a dispetto di qualsiasi giocoso Disaster Movie ne voglia ciclicamente cancellare la presenza, sulla Terra, “superfluo” non risulterà MAI. Imperfetto, ma resta pur sempre un prodigio.
E sfido chiunque a dire che, in piena luce quanto al buio, questo non sia “sotto gli occhi di TUTTI”…