Il ritorno di Cetto la Qualunque era inevitabile, stavolta nel capitolo 3. Antonio Albanese porta per la terza volta sul grande schermo uno dei suoi personaggi più riusciti, completando la trilogia scritta insieme a Piero Guerrera e diretta da Giulio Manfredonia.
Cetto ha lasciato la politica e l’Italia per stabilirsi garrulo presso lidi tedeschi. Nella terra d’Alemagna ha avuto modo di iniziare un’attività nuova e del tutto inedita: ha avviato una catena di ristoranti e pizzerie, si è sposato con una avvenente donna tedesca ed è diventato padre di una figlia.
Tuttavia, il richiamo alle origini resta irresistibile. La zia materna che l’ha cresciuto, sorella di sua madre, lo chiama al suo capezzale. Cetto torna d’impulso in terra calabra, in quel di Marina di Sopra; città che, peraltro, non ha un sindaco qualsiasi, visto che è stato ivi eletto suo figlio Melo.
La zia ha in serbo un colpo a sorpresa. Un segreto inconfessabile, che coglie l’occasione per rivelargli: Contrariamente a quel che sapeva, Cetto non è il figlio di un venditore ambulante di candeggina, quanto l’erede naturale del principe Luigi Buffo di Calabria. Cetto fa proprie valutazioni e prende una solenna decisione. Decide di trattenersi al Sud e godere dei privilegi del ruolo di sovrano “assolutista”, con il sostegno di un aristocratico gattopardiano. Non tutto andrà per il verso giusto, e più di qualche incrinatura va a connotare il rapporto di Cetto con la moglie e il figlio avuto in tempi precedenti.
Il personaggio risente di un bel po’ di stanchezza, anche se obiettivamente il film risulta punteggiato da trovate molto carine.
Inoltre, come ancora una volta può evincersi, il personaggio soffre la lunga distanza del film, e la pantomima dell’imprenditore assillato dal concetto “pilu” ostenta ancor più come, in sostanza, esso si rivela più aderenti alle tempistiche del cabaret formato piccolo schermo che alle sale cinematografiche.
L’idea base è di forte attualità, ovviamente vista dal lato della sarcastica esagerazione. Qui si ciacola dell’italica contingenza di poter contare sulla solidità di un singolo, capace di potersi esprimere con toni imperativi ma secchi e chiari alla maggior parte delle persone. Tuttavia, anche il focus sui rapporti familiari non perde di mordente, tant’è che la prima magagna riguarda l’ormai accidentato rapporto padre-figlio, dove, vicendevolmente, sia Cetto e Melo non se le mandano a dire, specie nell’interpretare, in chiave assai semplicistica, il proprio ruolo istituzionale al pari di una discesa condotta in modalità bike sharing, magari attraversando le piste ciclabili fino al visibile contrasto con i vincoli posti, ad esempio, dai divieti di caccia.
D’altro canto, non manca una spruzzata di luoghi comuni e di locuzioni sparate nel mucchio protese a depotenziare la già di per sé assai contenuta stima che gli abitanti dell’italico stivale nutrono per se stessi (“Fra poco metteranno al bando il peperoncino“; “Gli italiani si bevono qualsiasi minchiata: e io sono la minchiata giusta al momento giusto“).
La premessa comica è pregevole, anche perché intrisa di quel retrogusto amarognolo cha rende la commedia all’italiana annoverabile fra le più efficaci del panorama. Tuttavia, ahinoi, come spesso accade nell’italico pellicolame dei nostri tempi – pur restando molto al di sopra dell’obbrobbio legato alla manifesta ridondanza numerica dei cinepanettoni – assai rabberciata risulta la parte attuativo-descrittiva, facendo si che in numerose fasi il canovaccio narrativo si presenti come un gomitolo di lana che ogni tanto si spezza da solo e in assenza di vento, nel complesso dando luogo ad una trama che resta molto al di sotto delle proprie (non esigue) potenzialità.
La tendenza italica a farsi gregge e a trasformarsi da cittadini a sudditi (o da deputati a vassalli) non trova infatti nella costruzione narrativa, nei dialoghi, negli scambi di battute il ritmo, l’energia comica e soprattutto la sostanza morale necessari per sostenere un’ora e mezza di visione, e il risultato è una parabola qualunquista che non morde e nemmeno fugge. Neppure i riferimenti a certi politici che piacciono alla gente perché “semplici, determinati, immorali e volgari” bastano a sollevare ‘Cetto c’è’
dalla medietà cinematografica.
Albanese dispone di certo di un corposo appeal e un non trascurabile talento. Questa trilogia si chiude dignitosamente solo grazie alle sue doti di entertainer consumato; preciso e accorto ai dettagli nelle battute e nel modo di esporle, riesce a essere comprensibile nonostante usi sovente il dialetto nel suo recitato, e la sua gestualità generale, i modi di dire, le sue “proverbialità” disseminate lungo la via fanno bene il paio con l’acutezza degli sketch brevi e coincisi che sfoggia in tv.
Tuttavia, in mezzo a questi pur meritori fotogrammi, il solito vuoto sceneggiativo che caratterizza il nostro cinema. Tessere di un unico puzzle, anche molto colorato, ma che messe insieme non danno luogo a una vera e propria arte. Se non quella di arrangiarsi, in ragione di budget risicati e registi che non dispongono di polso fermo e idee indimenticabili.
E i risultati si vedono. Perché, sulla proiezione di un intero film, anche i personaggi più riusciti rischiano seriamente di perdere brillantezza. E la resa media, infatti, resta al di sotto della sufficienza.
Per amanti del genere e per chi adora Albanese.