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© 2022 Senzalinea testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Napoli n. 57 del 11/11/2015.Direttore Responsabile Enrico Pentonieri
Libri

CI LASCIA PINO ROVEREDO

Cristiana Abbate
Cristiana Abbate 3 anni fa
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10 Min Lettura
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E’ morto nella notte del 21 gennaio lo scrittore Pino Roveredo. Aveva 69 anni ed era malato da tempo, ma nell’ultimo mese le sue condizioni erano peggiorate rapidamente.

Scrittore impegnato, sempre a favore degli ultimi, Roveredo aveva esordito nel 1996 con il testo autobiografico “Capriole in salita” che lo portò all’attenzione del grande pubblico. Nel 2005 poi aveva vinto il Premio Campiello con “Mandami a dire”.

Nato nel 1954, a Trieste, la sua infanzia è segnata da gravi problemi familiari (genitori entrambi sordomuti) e sociali seguiti in gioventù dalla piaga dell’alcolismo, ha scritto numerosi romanzi e racconti; molta della sua produzione è stata per il teatro. La sua attenzione è sempre stata per i più fragili.

 

Attenti alle rose

Sergio viene abbandonato dopo tanti anni di matrimonio dalla moglie Gianna, stanca dell’aura di indifferenza calata sul loro rapporto. Sergio è distrutto. Si lascia tentare da amori mercenari ma non si consola, perché, apparentemente, non ci può essere consolazione. Eppure, a poco a poco, qualcosa di profondo, che era come assopito, si ridesta. Sergio comincia a entrare in sintonia col mondo circostante, ed ecco allora fiorire delle “rose”, un giardino di nuove consapevolezze dove le donne appaiono a Sergio in tutta la loro forza, fragilità, il loro coraggio. E neppure il tarlo della gelosia nei confronti di sua moglie, che pure sembra dettargli atti estremi, riuscirà a uccidere quella struggente fioritura. Perché Sergio ha imparato sulla sua pelle che le donne sono dei fiori, delicati ma pungenti come e più delle rose.

 

La melodia del corvo

Nella vita piccoloborghese e addormentata di Gino Bonazza, tra la moglie poco amata e una figlia a lui indifferente, compare improvvisamente Giuliana, una fiamma di gioventù. Giuliana, un’attivista di sinistra, bella come il sole, getta lo scompiglio nella vita di Gino, il quale, abbagliato da lei, non si preoccupa di raccogliere informazioni su cosa faccia per vivere. Lei, dopo le notti di folle amore, esce di casa al mattino presto per rientrare tardi, mentre lui le presta soldi a perdere. Solo quando Gino finirà in galera per un presunto spaccio di droga, inizia a capire di essere entrato in una spirale senza uscita. A nulla varranno i tentativi di Giuliana, stanca di essere legata a lui, di lasciarlo. Gino la ama e sarà con lei per sempre. Costi quel che costi. Dopo le storie di quotidiano disagio, Pino Roveredo torna con un avvincente noir sentimentale, una storia d’amor fou che lascia col fiato sospeso sino all’ultima pagina.

 

Mio padre votava Berlinguer

“Continuo a scrivere papà, scrivere veloce, con la parola che attacca la parola, la riga che rincorre la riga, con lo spazio che si accorcia, e con le cose da dire che pretendono di essere raccontate.” È una confessione al padre, questo libro. Un padre operaio-calzolaio sordomuto, scomparso, ma che è ancora vivo nel ricordo e nelle parole di chi ha preso la penna per fissarlo per sempre, per iscriverlo nei dati sfuggenti della vita. È un padre, quello di cui si parla, che votava Berlinguer, ma, prima che per una scelta ideologica, per la consapevolezza che lui era “una brava persona”, e questo giudizio continua a premere sulla realtà rimasta, di oggi, e a porre problemi. Un buon padre, certo, anche se l’alcol era una delle sue debolezze. E un figlio che ripercorre una sua vita di cadute e risalite, private e pubbliche, alla luce del sole: un figlio che rivendica la sua terza media, il suo operaismo, la sua irregolarità di scrittore, e che si pronuncia sull’attualità rimpiangendo, ma a occhio asciutto, la “fatica” di un tempo, la solidarietà. Fino a comprendere che se parliamo con i nostri morti, essi non muoiono davvero, ma anzi, eccoli tornare qui, in una danza che ci coinvolge tutti e ci fa capire che la memoria è vita. Pino Roveredo in questo nuovo libro racconta se stesso più che mai. È lo scrittore che ha molto vissuto, lirico, duro e puro.

 

Ballando con Cecilia

Un uomo riceve l’incarico di andare alla Casa dei Matti, padiglione I, per far compagnia ai degenti. Ed ecco spalancargli di fronte il mondo dell’ex manicomio, diverso da quello riformato coraggiosamente da Franco Basaglia, ma al tempo stesso sempre uguale, come un mito che non tramonta. Qui tutti hanno un’identità e una storia, anche se in frantumi. Tra l’odore del disinfettante e quello degli alimenti si aggirano Amalia, che si crede nobile, Anita, la “donna down” sempre col cappotto addosso, Maria che non fa che cantare, Olga, senza denti e con la mania religiosa, Berto, fissato con le parole crociate. E poi Cecilia: una donna molto anziana, di novantasei anni, di cui molti, troppi, trascorsi in manicomio, non si sa neppure perché. Cecilia è litigiosa, solitaria, bizzarra. Ma forse ha solo bisogno che qualcuno riconosca che lei “è”. Allora l’io narrante le offre una cioccolata. Lei si scioglie, cominciano a parlare. Gli racconta la sua vita, di quando faceva la commessa in una pasticceria e guadagnava settanta centesimi alla settimana. Altri tempi: ora lei, come gli altri, non sa più cosa accade nel mondo. E per quanti sforzi si facciano, non si può più tornare indietro, recuperare il tempo ormai trascorso. Si può solo ballare: un ballo reale e metaforico insieme, perché sulle note scorrono come in un sogno gli anni non vissuti da questi degenti, Cecilia compresa: gli anni perduti.

 

Ci vorrebbe un sassofono

Claudia ha poco più di quarant’anni ma se ne sente addosso molti di più. È bella, ma non lo sa. La vita non è stata buona con lei. Spinta dalla figlia Giada e da un residuo senso del dovere, resta inchiodata al capezzale di Enrico, ancora suo marito ma solo sulla carta, con cui ha condiviso poco amore e tanta amarezza. Quell’uomo ormai non è altro che assenza per lei, “immobile come la trasparenza e distante come la luna scura”. E così Claudia si piega allo strazio di dover ripercorrere le tappe di una vita di abbandoni, che chiedeva solo felicità e ha imboccato la strada della delusione. Certo, qualcosa di buono c’è stato, ma ormai la colonna sonora dei suoi giorni è il pulsare ipnotico dei macchinari a cui è attaccato colui che avrebbe dovuto amarla e onorarla. Lei sogna un’altra melodia, quella di un sassofono, che trasformi la stanza d’ospedale in un prato fiorito, in una fuga, un attimo, uno spiraglio di serenità. E forse, finalmente, il momento della rivalsa è arrivato. Fedele alla sua penna feroce e dolente, sempre attento alle narrazioni degli ultimi in cerca di riscatto, Pino Roveredo ci offre una storia impietosa sulla durezza dell’esistenza e sulla capacità di reinventarsi.

 

I ragazzi della via Pascoli

È strano, come fanno le creature ad arrivare sulla terra. Il padrone dell’Universo rimescola in un sacco, pesca e spedisce. Pino e il gemello Rino sono destinati a Trieste, alla casa di mamma Evelina e papà Sisto, una casa semplice, umile, la casa del silenzio, dove insieme all’affetto regna il linguaggio dei segni. La loro infanzia è serena fino ai sei anni, quando una zia benintenzionata decide che devono essere affidati a un istituto. Lontano da casa, in una camerata di lettini bianchi, la divisa al posto dei buoni vestiti che sanno di famiglia, regole e divieti, le rare visite di mamma e papà, così desiderate e così dolorose; e poi punizioni, ingiustizie, tanta solitudine. L’ansia di crescere per liberarsi da quella prigione. Ogni tanto una consolazione: l’amore per la compagna Giuliana, l’amicizia con i vecchi dell’ospizio vicino. E poi un giorno tutto cambia, e finalmente si riesce a vedere il cielo.

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Pubblicato da Cristiana Abbate
Veterinaria pentita e mamma convinta.Si ritiene propositiva e per nulla diplomatica .Grande appassionata di viaggi e divoratrice di libri. Malata di shopping e con il conto in banca fisso sul rosso.
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