Metà 2022 e la conta delle morti di donne per mano di chi dovrebbe amarle non si arresta.
La brutalità delle uccisioni, spesso con l’epilogo del suicidio del colpevole, desta grandi interrogativi sul vuoto assistenziale, giudiziario, relazionale che circonda le vittime e i carnefici.
In molti casi, la morte, purtroppo, è la conclusione di una lunga serie di denunce, di rapporti tormentati e violenti, costruiti su un “amore” malato che non guarisce ma uccide.
Eppure, nonostante le denunce, le accuse, gli allontanamenti forzati e le misure cautelari, la violenza non si arresta, anzi la distanza acuisce l’odio, il rancore, la voglia di annientare l’altro.
Esiste il Codice Rosso, ma manca ancora forse una vera cultura dell’accompagnamento consapevole per gli uomini violenti affinché si rieduchino alla non violenza, al rispetto dell’altro, alla lotta all’ossessione per il proprio oggetto del possesso, per cui, anche quando si riconoscono responsabilità, colpevolezza e condotte criminose, le persone restano libere di aggirarsi intorno alle loro vittime, convincerle del loro cambiamento e farle cadere nella trappola della menzogna e della premeditata scena del crimine.
E’ quello che è accaduto la scorsa settimana, quando in provincia di Vicenza, un uomo con un’auto imbottita di esplosivi ha ucciso nella stessa mattinata la compagna e la ex moglie a colpi di arma da fuoco fino a togliersi la vita dopo un inutile vagabondare per sfuggire alle forze dell’ordine.
L’uomo era stato allontanato e denunciato dalla ex moglie proprio per maltrattamenti in famiglia la quale, nel frattempo, si era ricostruita una vita con un nuovo compagno.
Dalle prime indagini, infatti, è emerso che l’uomo, 46enne bosniaco, era già stato condannato per maltrattamenti, minacce e lesioni gravi ed era stato arrestato nel 2019, proprio per questo con condotte criminose e violente che avevano messo in serio pericolo di vita la sua ex moglie e i figli.
Nel febbraio 2021 aveva finito di scontare tutte le misure cautelari, compreso il divieto di avvicinamento alla ex moglie e l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.
Zlatan Vasiljevic, oltre all’abuso di alcol e la “lunghissima protrazione delle condotte di maltrattamento” nei confronti di Lidia Vasiljevic – scriveva il 2 luglio 2020 il Giudice per l’udienza preliminare di Vicenza – aveva “un sostrato culturale arretrato, basato su una concezione del rapporto uomo-donna di tipo padronale e dominante“, motivando la non concessione della sospensione condizionale della pena di un anno e 10 mesi in primo grado per maltrattamenti e lesioni gravi; in secondo grado, la pena era stata attenuata a un anno e sei mesi.
Nel 2019, al momento dell’arresto, i giudici scrivevano che «la perseveranza dimostrata dal Vasiljevic, unitamente all’abuso di alcol e alla sua incapacità o comunque alla mancanza di volontà di controllarsi pure in presenza dei figli minori, costretti ad assistere alle continue vessazioni ai danni della madre consente di ritenere altamente verosimile il verificarsi di nuovi episodi di violenza, tanto più in ragione dell’allontanamento» della donna «dalla casa familiare e dalle tendenze controllanti e prevaricatorie dimostrate dall’indagato, che potrebbero con ogni probabilità subire un’escalation in termini di gravità e condurre a tragiche conseguenze».
Insomma ancora una volta una morte annunciata: i maltrattamenti, le denunce, le battaglie legali e, tre giorni prima del femminicidio, la lettera anonima di avvertimento che avvisava la donna di essere in grave pericolo e di non uscire da sola, non sono stati sufficienti ad evitare una ulteriore morte innocente che poteva essere evitata con un coinvolgimento più efficace delle strutture a presidio delle donne vittime di violenza.
Resta il problema che il sistema nel suo complesso sembra non riuscire a coprire tutti i vuoti che si generano nelle condotte degli uomini pericolosi: peraltro, alla luce della libertà riacquistata dal cittadino bosniaco e dall’attestazione di una sua completata rieducazione, emerge il fallimento del sistema giudiziario e terapeutico-rieducativo nel suo complesso.
La relazione del Servizio dipendenze dell’Ulss 8 di Vicenza, al termine di un periodo di trattamento terapeutico e rieducativo di Vasiljevic nella sede dell’associazione “Ares”, tra il 17 maggio 2019 e il 6 luglio 2020 contemplava la rieducazione del condannato con una “prognosi favorevole” in quanto la “valutazione finale è positiva – attestano i giudici d’appello – evidenziandosi una condizione di astinenza iniziata almeno un anno prima, senza ausilio di terapia farmacologica”, valutazione effettuata sulla base della relazione dell’associazione Ares che ha attestato l’esito positivo del percorso psicologico rieducativo.
Il Ministro Cartabia, alla domanda sul perchè un uomo tanto pericoloso e violento vivesse in libertà, ha deciso di inviare gli ispettori al Tribunale territoriale competente, chiedendo approfondimenti sulla vicenda e una relazione dettagliata ai vertici della Procura, al fine di verificare dove si è determinato l’errore di valutazione e/o gestione processuale, se tale c’è stato, per punire eventuali responsabili di un’adeguata forma di controllo e valutazione dello stato di pericolo del colpevole.
Purtroppo, le vittime di violenza familiare crescono con una velocità inarrestabile, spesso sotto gli occhi increduli e turbati dei figli minori, costretti a vivere in ambienti di abitudinaria violenza e in alcuni casi vittime anch’essi della ossessione malata dei loro genitori.
Da un’analisi delle vicende degli ultimi anni, le stragi in famiglia sono un fenomeno diffuso e spesso si tratta di famiglie normali, insospettabili, quando non siano state conclamate forme di violenza.
E’ la malattia della famiglia di oggi: l’istituzione sociale per eccellenza che accoglieva, educava, cresceva e inseriva nel mondo dei grandi gli adulti del domani è destabilizzata, colpita, debilitata e fragile.
Ecco perchè la gran parte degli episodi di violenza nascono proprio tra le mura domestiche e la pandemia, con le restrizioni necessarie e le ristrettezze economiche, in alcuni casi verificatesi, ha ingigantito il fenomeno con una vera e propria cronaca nera quotidiana di omicidi in famiglia, spesso colpendo, in via primaria, il coniuge o il convivente, ma non mancano casi registrati di figlicidi, uccisi nel sonno e con inaudita efferatezza.
Probabilmente, nonostante se ne parli, anche insistentemente, una vera e propria educazione al rispetto dell’altro e delle sue scelte di vita ovvero a respingere forme consolidate di predominanza maschile ovvero modalità relazionali basate sulle minacce e le lesioni fisiche non è divenuto ancora elemento tale da costruire personalità solide e resistenti alla tentazione dell’eliminazione dell’altro da sè.
E’ frustrante leggere ogni giorno di storie e storie, tutte uguali a loro stesse, dove c’è chi cerca di fuggire e denuncia per liberarsi del sopruso, eppure le sue parole non bastano, non risultano ascoltate a sufficienza, e questo permette ad una mano omicida di arrivare indisturbata laddove non dovrebbe, nel mondo intimo, riservato delle vittime, che spesso cadono in un agguato teso proprio da chi dichiarava di amarle: quello che è successo a Lidia è così, ennesima vittima del suo ultimo atto di fiducia per l’uomo – di cui non doveva fidarsi – che l’ha uccisa con un colpo a freddo alla nuca consolidando definitivamente il suo possesso e la sua potenza e negando per sempre l’amore di una madre e di una compagna destinato alla famiglia che si era ricostruita e che piange un dolore infinito e inarrestabile dove il corresponsabile invisibile potrebbe essere anche un sistema assente e inadeguato ad ascoltare e a fornire le necessarie sicurezze e difese.