La Fondazione Giuseppe Dessì nasce su iniziativa della Regione Autonoma della Sardegna e del Comune di Villacidro nel 1989.
Annualmente organizza il Premio Letterario Giuseppe Dessì, giunto alla XXXVI edizione e riconosciuto come uno dei più importanti premi letterari nazionali. La Fondazione, che ha appunto sede nella Casa Dessì, custodisce nei suoi locali l’unica biblioteca d’autore attualmente esistente in Sardegna. Del fondo Dessì fanno parte diversi volumi piuttosto rari e antichi nonché numerosi manoscritti.
Fanno inoltre parte degli arredi la macchina da scrivere dello scrittore con il suo studio. Complessivamente la Fondazione dispone di un patrimonio librario di oltre trentamila volumi.
Marco Belpoliti con il romanzo “Pianura” (Einaudi) e Alessandro Rivali con la raccolta di poesie “La terra di Caino” (Mondadori) sono i vincitori della 36/a edizione del Premio “Giuseppe Dessì”. La proclamazione e la premiazione sono avvenuti il 25 settembre a Villacidro.
Oltre all’onore degli allori, i vincitori delle sezioni letterarie – Narrativa e Poesia – si aggiudicano un premio in denaro del valore di cinquemila euro, mentre vanno in dote 1500 euro agli altri quattro finalisti: Eugenio Baroncelli con “Libro di furti. 301 vite rubate alla mia” (Sellerio) e Antonio Franchini con “Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani” (NN Editore) per la sezione Narrativa; Franca Mancinelli con “Tutti gli occhi che ho aperto” (Marcos Y Marcos), Francesca Mazzotta con “Gli eroi sono partiti” (Passigli) per la sezione Poesia.
Pianura di Marco Belpoliti
Pochi luoghi come la Pianura Padana sono allo stesso tempo evidenti e misteriosi. Cuore geografico e produttivo del Paese, la pianura si dispiega allo sguardo esterno apparentemente senza ombre o angoli nascosti: tutti, guardandola da fuori, pensiamo di conoscerla. Ma se ci fermiamo a osservarla meglio, se proviamo a capirla davvero, ecco che, come se d’improvviso salisse quella nebbia che spesso l’avvolge, la pianura diventa un’ipotesi, un oggetto misterioso, un teatro a cielo aperto di malinconie e fantasmi. Marco Belpoliti, che in quelle terre c’è nato, ha intrapreso un viaggio fisico e intellettuale attraverso la Pianura Padana: ne percorre le strade, ne racconta le città e i «paeselli», ma, soprattutto, ne evoca gli abitanti. Tra questi, molti amici e compagni di avventure, da Gianni Celati a Luigi Ghirri, da Piero Camporesi a Giovanni Lindo Ferretti, da Giuliano Scabia a Giulia Niccolai, da Ermanna Montanari a Giuliano Della Casa, da Sandro Vesce a Marco Martinelli, e tanti altri che abitano quelle terre con la loro arte e la loro bizzarria. Ne esce cosí fuori un libro allo stesso tempo intimo e collettivo, quasi un’autobiografia in forma di paesaggio, striata di struggenti nostalgie, capace di raccontare una parte fondamentale dell’Italia, oggi come non mai messa di fronte a una crisi, anche d’identità: ma sapere da dove si viene è il primo passo per procedere verso il futuro.
La terra di Caino di Alessandro Rivali
Questo libro fortemente organico, che segna la piena, raggiunta maturità di un poeta, si impone per l’identità forte della sua struttura e per le articolazioni di una narrazione lirica condotta attorno all’emblematica figura di un protagonista, volutamente anche troppo umano, pur cangiante nel suo apparire, e proposto con il nome di Caino. Un nome che rivela la forte nostalgia di un paradiso perduto, nell’apparizione dei «molti colori del male» che segnano il nostro essere nel mondo, dunque nella storia e nei luoghi, nelle diverse generazioni e civiltà e nella memoria. Alessandro Rivali compie in questi suoi versi un viaggio apertissimo e inquieto, e ne dà uno splendido resoconto d’impronta lirica, ma che spesso si avvicina, anche per i toni, a un vero e proprio disegno epico. Eccoci allora, per non citare che qualche episodio, dai Sumeri e Gilgamesh ai congelati del Don nel ’42, con esempi di violenza e guerra, ma non di meno con il manifestarsi delle opere di grandi artisti come Leonardo Bistolfi, Arturo Martini, Marc Chagall o Miró, ma anche di Ezra Pound, orrendamente ingabbiato nel ’45, eppure capace di splendidi versi dei Cantos. Tra i molti luoghi in cui il viaggio poetico si svolge, domina peraltro Genova, città natale dell’autore, con il popolo di morti del cimitero di Staglieno. Ma il dolore non esclude affatto l’amore, la ricerca di un volto paterno totale, il riparo della tenerezza, così come l’aprirsi in momenti nei quali si manifesta improvviso un realismo dai vivi contorni marcati. Alessandro Rivali realizza una poesia nella quale si impone la potenza delle immagini guidate dal pensiero, nella continuità di una insolita e densissima energia espressiva, che nelle terzine del testo finale, dedicato al commovente monumento funebre di Margherita di Brabante di Giovanni Pisano, trova un sensibilissimo, delicato compimento esemplare.
Libro di furti: 301 vite rubate alla mia di Eugenio Baroncelli
Le vite di carta di Eugenio Baroncelli sembrano non esaurirsi mai. Lo conferma questo Libro di furti che offre, ancora una volta microbiografie, miniature filosofico-letterarie che hanno la capacità di riunire in un gesto isolato, in un capriccio dell’attimo, in un’ironia della vita il racconto intero di un personaggio.
Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani di Antonio Franchini
Un uomo rivede tutte le paure della sua vita nella gara di corsa della figlia; Francesco Esente discende il fiume in canoa per onorare lo spirito dell’amico scomparso; un vecchio lottatore sale sul ring un’ultima volta e, con la certezza della sconfitta incisa nei muscoli, riscopre il prodigio del combattimento. I personaggi di questi racconti vanno alla ricerca dell’istante perfetto in cui l’esistenza prende senso e si misurano con voragini di cedimento e di abbandono. Tutti provano a opporsi alla morte, ad aggirarla, evocarla, sbeffeggiarla; e guardano con ammirazione chi è già riuscito nell’impresa, soldati di una storia scolpita nella terra e negli oggetti, uomini con alle spalle una vita dedicata alla propria afición, che sia la corrida, la pesca, la lotta, la letteratura, o una qualsiasi ossessione accarezzata per ingannare il vuoto.
Tutti gli occhi che ho aperto di Franca Mancinelli
La voce di Franca Mancinelli si affida a un difficilissimo equilibrio, tra esattezza del dettato e concentrazione semantica, ottenuta con l’esercizio costante di due forze complementari, quella che accentua e amplifica e quella che elimina e abrade. L’esattezza agisce a tutti i livelli: nella formulazione del singolo verso, nella miscela di immagini e giri sintattici, ma anche nella strutturazione calcolatissima delle sezioni, dei raccordi e persino delle pagine bianche, su cui si accampano minuscole, perfette spirali. Per raggiungere questa giustezza espressiva, l’autrice ha dovuto operare neurochirurgicamente sulla propria scrittura, condensando il senso e eliminando tutto il superfluo: non a caso il titolo felice dell’opera, “Tutti gli occhi che ho aperto”, denuncia il prezzo pagato nel verso che gli fa seguito, sono i rami che ho perso. Queste poesie nascono da un’urgenza tangibile che non si fa mai aperta confessione: urgenza privata, biografica, e urgenza etica, sempre riferita alle zone più fragili, più terribili della nostra vita, associata o dissociata, dove è giorno, il vento / non si alzerà. Da qui, Franca Mancinelli parla per brevi frammenti, si oppone alla dissoluzione e al silenzio con la forza del niente / del non avuto mai / niente da barattare. Lungo questa via perigliosa, i gesti ricompongono una lingua / si allaccia al mio corpo un’armatura.
Gli eroi sono partiti di Francesca Mazzotta
“Che cos’è la felicità lirica? Accade quando suoni e significati si sposano armoniosamente per generarla, nel farsi di un corpo amoroso di parole per offrirlo alla compresenza dell’ascolto. Questa la beanza – dove i criteri vaporosi del sonno ci orientano nei crateri annebbiati del senno alla ricerca della perfezione luminosa – del sacrificio che qui interpella poeta e lettore nell’offerta eroica di un corpo di parole. Come insegnano Cristina Campo e i numerosi padri letterari di ogni tempo delle lingue toscane di cui questa poesia si nutre, la felicità lirica è imperdonabile, perché fa del dolore alcunché di cantabile in endecasillabi, settenari, novenari perfetti da opporre al silenzio, per risalire dal buio condotti dal canto. La poesia di Francesca Mazzotta piange senza stonature, «è rito e ritmo, ovvero solamente / misura che cadenza la paura», con mestizia elegiaca, con nostalgia malinconica. Il criterio eroico è non perdere il ritmo di una versificazione minuziosamente cesellata e ricercata durante l’esercizio della parola. Un esercizio muscolare e raffinato, ma non estetizzante, affettivo piuttosto, che allontana lo sguardo dal limite del sé e si apre.” (Rosaria Lo Russo)