Siete in cinque, colleghi di studio, di discreta cultura, e il martedì sera vi incontrate per giocare a calcetto: bene, sappiate che due su cinque non legge neanche un libro all’anno.
Probabilmente non sei tu che stai leggendo questo articolo, e neanche il portiere, che di solito vive di riflesso e istinto, magari lui legge; deve essere il terzinaccio che legge solo il sito della Gazzetta oppure quello delle scommesse on line.
Un paradosso? Forse, ma basato su dati veri.
Il mercato del libro nel 2017 ha fatturato 2,773miliardi di euro: tanti, pochi?
Tanti, perchè sono numeri superiori a quelli di cinque anni fa; ma la realtà ha sempre più prospettive; i numeri parlano di ben 4902 case editrici con almeno una pubblicazione, 72.059 titoli pubblicati (escludendo i selfpublishing); ovvero, circa un italiano su 1000 si è visto pubblicare un libro.
Il basso indice di lettura costituisce il principale problema di crescita dell’editoria nazionale: i lettori forti sono pochissimi, tra i ceti dirigenti e professionali il 38,1% non legge alcun libro e tra gli stessi laureati il 32,3% non legge nessun libro nel tempo libero.
Recentemente il disegnatore, sceneggiatore, curatore di Dylan Dog e della Bonelli, Roberto Recchioni, che attraverso i social interagisce quotidianamente con fans e lettori, ha riportato una atroce conversazione avuta con l’editor di una famosa casa editrice nazionale.
Secondo quanto riportato da Recchioni, l’obiettivo per le case editrici è intercettare a qualunque costo il lettore che entra in una libreria, per fargli acquistare uno dei 200 milioni di libri venduti ogni anno in Italia. A riprova di tanto e a prescindere dalla qualità di quel che si pubblica, la lotta delle case editrici è sullo spazio che riescono (pagando, meglio sottolinearlo) a occupare fisicamente nelle librerie e sulle piattaforme multimediali.
L’esposizione di un libro, per chiarire le idee al giovane scrittore che si domanda perché il suo libro non si vede in libreria, non dipende da lui, ma da quanto la casa editrice è disposta a spendere per prendere gli spazi migliori.
Insomma, lo scrittore sembra essere l’anello meno importante della catena. Anzi, come riferisce Recchioni, “un male necessario ma non indispensabile”.
Ma è davvero così? E se si, e se la Campania è al terzultimo posto per quantità di libri venduti, perché Napoli pullula di scrittori e di case editrici che spuntano come funghi ogni anno?
Qual è la molla che spinge centinaia di napoletani (tra le quali il sottoscritto, faccio outing) ad impiegare il loro tempo libero inseguendo il miraggio di vedere pubblicato un loro libro che solo nel 10% dei casi supererà le 100 copie vendute?
Ho posto questa e altre domande a tre amici, scrittori attivi nei loro settori, che vivono (molto marginalmente) anche della loro passione, attraverso laboratori di scrittura, collaborazioni con testate, rassegne letterarie.
Il comune denominatore è la familiarità con le parole, la zona di confort all’interno della quale si muovono sicuri e rassicurati. Gianluca calvino fa l’editor e docente di scrittura creativa, Francesca Gerla (che può vantare anche un libro scritto con Pino Imperatore) è una insegnante di inglese e ha tradotto numerosi libri; Francesco Ambrosio è un giovane scrittore che da anni coltiva il suo sogno di scrivere il fantasy perfetto.
Napoli è ricca di spunti, e rappresenta, anche a costo di abusare della iconografia classica, lo scenario naturale all’interno del quale muovere fili e trame di più generi, dai noir alle storie sentimentali o quelle umoristiche.
Per Francesca Napoli “gode” del suo essere periferica rispetto a Roma e Milano, ma al tempo stesso, per la sua natura inafferrabile e unica, attrae la fantasia dei lettori di tutta Italia. Pur nel suo essere una città problematica, caotica e anche avvilente, Napoli riesce a conservare un’anima specifica e fuori dal coro, divenendo così fonte di ispirazione quotidiana per chi la abita.
Gianluca, pur non amando scrivere di Napoli, la ritiene un teatro a cielo aperto.
Francesco, il più “periferico” rispetto a Napoli, è un sognatore; vive di fantasy, e crede fermamente che un libro possa sensibilizzare, raccontare, anche stimolare le persone alla creatività: ma non fino al punto di salvare il mondo.
Come mi ha detto, “se molte cose nella realtà non funzionano è perché le persone hanno smesso di sognare e di prodigarsi un modo migliore.”
Di certo, gli scrittori sono – o almeno i nostri amici scrittori lo sono di certo – dei lettori forti; vari, curiosi, alla perenne ricerca del bello, fuori e dentro la produzione letteraria napoletana.
Gianluca negli ultimi anni si è focalizzato sia da lettore che da scrittore sul giallo-noir, rifuggendo dai libri moralistici, quelli che vogliono insegnarti a vivere. I “buoni sentimenti”. Per me la letteratura con la L maiuscola è perfettamente amorale. Racconta storie, vicende, persone, ma non vuole insegnare. Non deve farlo”.
Francesca, da bambina lettrice vorace di letteratura per l’infanzia, fu folgorata da ragazzina nell’Isola di Arturo di Elsa Morante; e pensa che i libri che salvano il mondo siano quelli che svelano la verità a chi, in maniera consapevole o inconsapevole, l’attende.
Francesco ama leggere i thriller e i fantasy; sceglie i libri “a sensazione”, magari per un titolo o per la copertina, ma in definitiva mi colpisce di più una sinossi che preclude poi tutti gli altri elementi.
Infine, la domandina: lo scrittore napoletano per eccellenza.
Raffaele La Capria, Enzo Strino, Matilde Serao, oltre ad Eduardo De Filippo, che per Federico resta un colosso della narrazione partenopea.
Aggiunto d’imperio Ermanno Rea (grazie alla libertà concessa dalla giovane e ambiziosa testata che ospita i miei articoli), la curiosità è d’obbligo: e la nuova narrativa napoletana?
Forse per caso forse per scelta, non ha trovato spazio nelle risposte dei nostri amici autori.
Ma senza fretta, ci sarà tempo per essere considerati classici.
O no?