Tratto da un’incredibile storia vera, quella di tal Leo Sharp, e con un cast eccezionale.
Earl Stone, veterano della seconda guerra mondiale, floricoltore dell’Illinois, si diletta nella coltura di un fiore effimero che vive un solo dì, e al quale ha sacrificato la vita e una famiglia che non vuol più saperne di lui. Piegato dall’involuzione economica del Midwest, Earl è costretto a vendere la propria casa. L’unico suo possedimento resta quel pick-up col quale ha avuto l’abilità di attraversare 41 stati su 50 senza mai prendere una multa. Questo suo particolare “talento” colpisce un uomo ignoto, che arriva a proporgli un lavoro tanto redditizio quanto illegale. Far da corriere per il trasporto di un’ingente quantità di droga dal Texas a Chicago, per conto di un boss alla guida di un cartello di narcotrafficanti messicani.
Earl accetta all’impronta, senza porre nessun quesito. Carica in garage ed effettua la consegna in un motel. E’ molto anziano, incensurato, quindi irrintracciabile per la DEA. Si ricicla in corriere senza fiatare, una novella bestia da somma, per l’appunto un ‘mulo’. Un animale da trasbordo, che ha ormai scordato i suoi principi. Al diavolo il bene del Paese. La vil moneta lo affascina, anche perché Earl ha poco da perdere. Non sa quanto tempo gli resta, ogni mattina potrebbe essere l’ultima in cui apre gli occhi e ogni notte quella in cui li richiude per sempre.
Clint Eastwood, al suo 38mo film, 88 anni assai ben portati, è leggenda, e lui è consapevole di essere considerato alla stregua di un mito. Le rughe, lo sguardo profondo nel quale s’innesta un sopracciglio increspato ad arte, le fattezze eleganti, un cappello portato con fierezza vengono qui spalmate in un film che rinviene nella “lentezza” narrativa, dipanata per gran parte a bordo di un Ford F-100 degli anni ’70 che provvede a lucidare con dovizia (un’altra Ford dopo Gran Torino), una delle sue peculiarità. Avviso doveroso per chi spasima per gli “action-films”.
Al volante, Earl ha il fegato di turlupinare spacciatori, regala fiori alle signore, e canta canzoni mentre intorno a lui scorrono le sconfinate autostrade del Midwest. Il classico bianco, colto da incipiente misoginia di carattere geriatrico, razzista più della media. Earl ha un linguaggio e un comportamento sconvenienti, denigra i messicani additandoli della locuzione “fagioli rossi”, scambia lesbiche per uomini e, sprezzante, dà del “negro” ad un viaggiatore afroamericano rimasto in panne lungo la strada.
Peraltro, Earl è anche molto anziano. Al punto da non poter mai correre il rischio di esser sospettato dalla polizia. Un’arma criminale perfetta, apparentemente inoffensiva, trasparente almeno quanto solida ed efficace nei risultati. Praticamente invisibile alla legge, raffigurata dall’agente di Bradley Cooper.
‘Il Corriere – The Mule’ ribadisce la complessità e l’opulenza espressivo-descrittiva del cinema di Eastwood. Repubblicano di fatto, libertario di cuore, il suo Earl ha una buona parola per tutti, ma non ci pensa mai due volte quando si tratta di andare in soccorso dei più deboli.
Il contesto, devo dire la verità, gli calza a pennello. Silenzi alternati a discorsi senza troppi fronzoli, la sensazione di essere in grado, in anteprima, di leggergli sul viso le parole che si accingerà a dire. La perfetta rispondenza fra gli stati d’animi che sa conferire ai suoi personaggi e i dialoghi.
Nella fattispecie, il buon Clint Eastwood “approfitta” della pellicola per elaborare il rimorso per i suoi cari; manco a farlo apposta, Alison Eastwood interpreta il ruolo di Iris, figlia ferita dalla strafottente assenza di un padre a cui non parla più da un pezzo. Il film è struggente anche per questo. Lui che, da regista, si è filmato morire tante volte, adesso veglia impotente, come freddo granito, sulla fine dei giorni di chi ama. Come un tentativo estremo di un possibile riavvicinamento padre-figlia, tuttavia avendo cura di non smorzare la propria negligenza e senza la pretesa di sanare in un nonnulla le ferite del passato. Anche un mostro sacro come lui sa che non è possibile osare oltremodo su certi temi, ben consapevole che ogni loro possibile banalizzazione arrecherebbe serio danno all’intero narrato e all’impianto della sceneggiatura che, anche in questo caso, e come suo solito, si rivela impeccabile.
Clint/Earl, qui gringo bianco e sfuggente come uno spettro alla legge – peraltro assecondato nella narrazione da presenze di assoluto calibro come Michael Peña, Andy Garcia, Laurence Fishburne si concede anche una scena per alcuni aspetti paradossale. In Messico viene sedotto a letto da due prostitute. Ma, a un tratto, Eastwood spegne la luce, quasi sfidando lo spettatore a capire se quella situazione sia reale o meno.
In ogni modo, Clint Eastwood continua nel suo cammino, motivato e mai stanco, sul filo di quella sagoma fantasmagorica che, pure quando svanisce semplicemente dietro una porta, sa farlo con classe, lasciando sullo sfondo l’alone di una superiore capacità interpretativa e l’aurea di una generazione irripetibile.
Nulla più ha da dimostrare. E già procede a vele spiegate verso il 39mo film.