Negli ultimi anni la cultura del fumetto è esplosa, conquistando una generale attenzione mediatica, grazie anche alla spinta di un apparato critico sempre più diffuso e raffinato. Nel vasto mondo delle graphic novel l’industria dell’entertainment ha scoperto una miniera quasi inesauribile di idee e materiale, mentre la rete rimastica i classici del fumetto mondiale, facendo al contempo da cassa di risonanza per le nuove pubblicazioni e da piattaforma creativa per idee innovative.
Haters e followers si incontrano e si scontrano, inseguendosi in un campo sempre più aperto e affollato. Il risultato è una community vasta e ‘liquida’ di autori, lettori e addetti al settore.
In questo effervescente multiverso in espansione, come sta cambiando il fumetto in quanto mezzo espressivo, e quali sono i futuri possibili? Nel “gioco” multimediale della contemporaneità qual’è il posto dell’arte sequenziale?
Ho rivolto queste e molte altre domande ad un decano della cultura fumettistica italiana: Alessandro Di Nocera, giornalista, scrittore e storico del fumetto, profondamente immerso nei processi contemporanei. Dalle sue rispsote è nata l’ intensa e appassionata intervista fiume che state per leggere.
Quando hai iniziato a leggere fumetti? E qual è stata la tua prima lettura?
Ero molto piccolo. Ricordo un impatto brutale con le storie di Spider-Man scritte da Jerry Conway e disegnate da Gil Kane e Ross Andru nella prima metà degli anni Settanta, quando le atmosfere che permeavano i comic-books del Tessiragnatele si fecero molto dark e incominciarono a emergere creature ai limiti del soprannaturale come Morbius, il vampiro vivente o Man-Wolf. La mia prima memoria di un albo a fumetti è quindi ricollegabile a un incubo da cui, verso i quattro o cinque anni, mi risvegliai piangendo a dirotto e nel quale quelle tavole oscure avevano preso vita, con un mostruoso Spider-Man che cercava di ghermire i miei genitori.
Quello era un periodo in cui nelle case giravano molti fumetti: gli albi della Dime Press (l’attuale Sergio Bonelli Editore); quelli dell’Editoriale Corno, che pubblicava le avventure dei supereroi della Marvel; i “Topolino” della Mondadori; i volumetti umoristici di “Alan Ford”; gli immancabili tascabili di “Diabolik; la collana “UFO” della Edifumetto, molto liberamente ispirata all’omonima serie TV di Jerry e Sylvia Anderson; i settimanali “Lanciostory” e “Skorpio” dell’allora Eura Editoriale (divenuta poi Aurea). Le edicole erano permeate da una biodiversità editoriale oggi impensabile, viste le radicali mutazioni che sta subendo il mercato. Non c’era chiosco che non avesse ceste e scatoloni dove era reperibile ogni tipo di usato, giornaletti non di rado macchiati di olio e di sugo – imbianchini e operai li leggevano durante le pause dal lavoro – ma che servivano a venire a capo di storie che si consumavano senza rispetto di antefatti e cronologie o a completare collezioni precarie, che le mamme spesso e volentieri buttavano nei cassonetti senza chiedere il permesso a nessuno.
Avvertivo che era un linguaggio moderno, ibrido, che rifiutava le regole riconosciute e rimasticava ogni cosa in maniera originale e maleducata.
Era un mondo diverso, pre-digitale: non esistevano nemmeno le cassette VHS, i film si potevano vedere solamente nei cinema – attendendo che d’estate replicassero qualche pellicola di James Bond di cui gli adulti favoleggiavano – o in televisione, rimettendosi alla bontà delle Reti nazionali e scovando sui nascenti canali privati pellicole esaltanti e bizzarre trasmesse a ore improbabili, con la speranza di beccarne l’inizio e quindi il titolo.
Era inevitabile che i fumetti rivestissero una funzione centrale nell’intrattenimento di massa. Visto che non si sapeva quando sarebbe stato possibile vedere o rivedere il “Dracula” della Hammer interpretato da Christopher Lee e Peter Cushing o “Il Mostro della Laguna nera” di Jack Arnold, era lo “Zagor” di Guido Nolitta/Sergio Bonelli a compensare la mancanza e a fungere da antesignano del blu-ray o dello streaming. Per dire: “L’Eternauta” di Hector G. Oesterheld e Francisco Solano Lopez, letto a spizzichi e bocconi, senza una continuità, sui “Lanciostory” di un mio cugino, mi rimandavano ai temi e alle atmosfere di un film britannico degli anni Sessanta trasmesso dalle TV private – “Daleks: Il futuro tra un milione di anni” – che vedeva come protagonista un Doctor Who interpretato da Peter Cushing. Era un modo per “rivederlo” e “possederlo”. È così che funzionava.
Cos’è che ti appassionato? E più in generale, qual è secondo te il vero fascino dell’arte sequenziale?
Avvertivo che era un linguaggio moderno, ibrido, che rifiutava le regole riconosciute e rimasticava ogni cosa in maniera originale e maleducata. Con lo sguardo di oggi direi che all’epoca mi intrigò la sua forza post-moderna, il fatto che potesse assimilare al suo interno ogni storia già narrata per mostrartela e raccontartela di nuovo in maniera spregiudicata e nuova. Ripeteva senza risultare ripetitivo, ti poteva parlare di cose serissime divertendoti. Gli adulti lo guardavano con un misto di curiosità e repulsione, cosa che contribuiva a farmelo percepire come impunemente trasgressivo. Poteva essere profondo, come “Corto Maltese” di Pratt o “Welcome to Springville” di Berardi, Calegari e Milazzo, ma anche sguaiato e osceno, come i tascabili pornografici della Ediperiodici che facevano capolino sotto i banconi di certi “circoli culturali” o di certi barbieri. Com’era possibile che i segni grafici di un Leone Frollo o di un Sandro Angiolini potessero risultare così eccitanti? “Zora”, “Jacula”, “Storie nere”, “Oltretomba” possedevano una forza violenta che scardinava tabù e divieti secolari.
Era chiaro che col linguaggio del fumetto si poteva ricreare ogni cosa, ogni epoca, ogni genere, adottando il potenziale del cinema (attraverso la scansione per immagini), della letteratura (con testi e dialoghi), dell’arte (col tratteggio e, quando c’era, il colore). Quando poi nella prima metà degli anni Ottanta incominciarono a prendere piede le riviste antologiche – “Orient Express”, “L’Eternauta”, “Comic Art”, “Frigidaire”, “Pilot”, “1984”, “Metal Hurlant – compresi che quello che già percepivo come un mondo vasto e ricchissimo era in realtà ancora più ampio e ricco di quanto avessi mai potuto immaginare. Sorgevano curiosità, interrogativi: cosa contraddistingueva una storia supereroistica statunitense di 22 pagine da un album cartonato franco-belga di 46 pagine; un albo Bonelli di 94 tavole da un’historieta latinoamericana di 12 o 14? Sicuramente non si trattava soltanto di una questione di dimensioni e di foliazioni, ma anche di contenuti specifici e ricorrenti, di tecniche narrative, di scansioni, di linguaggi e di grafismi specifici di determinate scuole. Quale immaginario collegava – se era possibile trovare un collegamento – il “Ranxerox” di Tamburini e Liberatore ai mondi fantascientifici postapocalittici concepiti dallo sceneggiatore argentino Ricardo Barreiro assieme a disegnatori come Juan Gimenez, Massimo Rotundo e Franco Saudelli?
Ero onnivoro e affamatissimo di tutto, saltavo dalla fantascienza di “Valerian” di Christin e Meziers alla realtà italiana viva e grottesca descritta in “Zanardi” di Pazienza, senza soluzione di continuità. Era un universo che letteralmente ti investiva con un’infinità di narrazioni, segni grafici, colori. Ogni giorno potevo eseguire due o tre salti spazio-temporali per vivere su una Terra parallela o acquisire gli strumenti di decodifica di altri ambienti e altre città, dalla Bologna di “Pentothal” o del “Sam Pezzo” di Vittorio Giardino alla Buenos Aires de “L’Eternauta”; dalla Napoli metropolitana de “I racconti di Zampino” di Giuseppe Ferrandino e Ugolino Cossu alla New York estrema de “Il pescatore” di Barreiro e Rotundo.
Era chiaro che col linguaggio del fumetto si poteva ricreare ogni cosa, ogni epoca, ogni genere
Quando invece il tuo rapporto con il fumetto è diventato più professionale?
Nella seconda metà degli anni Ottanta il fumetto aveva conseguito uno status critico e culturale mai raggiunto prima. E oltretutto dagli USA arrivavano le scosse sussultorie di un rinascimento che stava sovvertendo ogni cosa. Alan Moore aveva aperto le porte ad autori britannici – Neil Gaiman, Jamie Delano, Grant Morrison, Steven Grant, ecc. – che possedevano una consapevolezza del mezzo e dei generi fumettistici del tutto inedite. In Italia, dal canto suo, Tiziano Sclavi contribuiva a condurre il linguaggio del fumetto popolare verso nuove vette, fondendo linguaggio popolare e ricerca artistica.
Dinanzi a questo palese sdoganamento, a questa attestazione di forza del medium, fu inevitabile per me, quando mi iscrissi all’Università, cercare un corso che mi permettesse di affrontare i linguaggi del fumetto costruendomi un’ossatura teorica e accademica. Alla Federico II di Napoli la cattedra di Sociologia delle Comunicazioni di Massa era affidata ad Alberto Abruzzese, un luminare che grazie al supporto di due suoi studenti/assistenti, oggi apprezzati docenti, Sergio Brancato e Gino Frezza, si era aperto definitivamente a un medium che già lo intrigava. Era la prima volta, nell’ambito accademico italiano, che gli studi sul fumetto acquisivano una tale forza e una tale importanza programmatica, dimostrando che non si trattava solamente di una fissa da collezionisti, da eterni bambini o da nostalgici. Un testo come “La grande scimmia” mi fece scoprire quali erano i legami profondi che univano il fumetto all’industria culturale di massa nata nell’Ottocento; “La scrittura malinconica” di Frezza mi fece conoscere i dispositivi testuali che guidavano la creazione di un fumetto; “Il linguaggio dei comics” di Roman Gubern me ne fece apprendere nello specifico la grammatica e la sintassi. A quel punto fremevo a mia volta per scrivere e dissertare di ciò che mi piaceva, provando a spiegare perché mi piaceva e perché lo consideravo importante al di là del mio gusto personale. Fui coinvolto da due prozine: “Schizzo”, pubblicata dal Centro Fumetto “Andrea Pazienza” di Cremona, e dalla partenopea, “Linea Chiara”, edita dalla Cuen, che riscosse molto successo e interesse (ma, in generale, a Napoli il fumetto ha sempre ottenuto una notevole attenzione, allora come oggi).
Grazie a “Linea Chiara” entrai in contatto con Marco M. Lupoi, allora direttore editoriale della Star Comics (licenziataria delle principali testate della Marvel in Italia) e destinato a diventare illuminata figura di riferimento di Panini Comics. Il fiuto e la caratura critico-programmatica di Marco erano e sono formidabili. Fu lui a inserirmi nello staff di “Starmagazine”, una rivista che per la prima volta integrava informazione, critica rigorosa e fumetti supereroistici. La dirigeva Daniele Brolli, reduce dal gruppo avanguardista Valvoline Motorcomics, un artista, uno studioso e un teorico, uno dei massimi esperti nazionali di narrativa noir e fantascientifica, che a colpi di ideali scudisciate mi insegno come si dovevano impostare recensioni e saggi brevi. Ricordo alcuni giorni d’estate – non esisteva l’Internet di massa e i dattiloscritti viaggiavano tramite posta raccomandata – trascorsi a riscrivere per almeno quattro volte un pezzo che alla fine non fu nemmeno accettato. All’ennesima notizia di rifiuto mi ritrovai a vomitare in un giardino pubblico a causa della tensione nervosa accumulata, ma questo mi spinse a capire davvero cosa c’era da migliorare, quali fossero le mie reali carenze. Quando Daniele accettò il mio primo articolo lanciai un urlo bestiale di trionfo. È da molto che non ci sentiamo più, ma gli devo tantissimo: innanzitutto il senso di umiltà, di dedizione e di attenzione al lavoro che si deve svolgere in ambito intellettuale. Non deve mai apparire come una passeggiata, nemmeno quando si è molto sicuri di sé.
Alla Star Comics pagavano benissimo (ma era così per tutta l’editoria nostrana): 50.000 lire lorde a tavola. Scrivendo a un ritmo costante ci si poteva tirare su famiglia.
La mia tesi di laurea riguardò proprio il genere supereroistico, che ormai conoscevo a menadito, come specchio della società americana nell’arco di tutto il XX secolo. Riadattai e integrai il testo originario e lo proposi all’editore Castelvecchi, che lo accettò e lo pubblicò all’inizio degli anni 2000 col titolo “Supereroi e Superpoteri” [Supereroi e superpoteri. Storia e mito fantastico nell’America inquieta della guerra fredda, Castelvecchi, Roma 2003 n.d.r.]. Contemporaneamente usciva il mio primo romanzo, “La notte dell’Immacolata”, un dramma con risvolti paranormali e soprannaturali – io lo definivo come un incrocio tra il serial TV “Twin Peaks” e “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” di Brizzi – che fu letto, approvato e portato all’editore Derive/Approdi da Luigi Bernardi, critico, editor, talent scout e agitatore culturale al quale devo tantissimi insegnamenti e che purtroppo ci ha lasciati troppo prematuramente.
“Supereroi e Superpoteri” si aprì a una bella vita accademica e mi fece guadagnare un solido credito critico. Fu grazie a quel testo che Marco Rizzo – che oggi è un rinomato autore di graphic journalism, nonché supervisore in forza alla Panini – mi coinvolse nell’animazione del sito specializzato Comicus.it, nell’ambito del quale, quando avevo ormai superato i trent’anni, presi confidenza con le potenzialità e le trappole della comunicazione via Internet.
“La notte dell’Immacolata”, invece, mi fece notare da Ottavio Ragone, all’epoca uno dei principali redattori della sede napoletana del quotidiano “la Repubblica” – oggi ne è il direttore – che mi invitò a scrivere per quelle pagine presentandomi al responsabile di allora, Giustino Fabrizio. Quando spiegai loro che intendevo occuparmi di fumetti, non ci potevano credere: lo spazio per quel particolare campo era oggettivamente scarso e si faceva fatica a immaginare un interesse, sia da parte di chi pubblicava che dei lettori. Ma era un problema che affliggeva un po’ tutte le testate nazionali e Fabrizio, Ragone, Giovanni Marino – altro redattore di spicco, oggi coadiuvante della redazione partenopea del giornale – ebbero l’illuminazione e il merito di crederci, concedendomi sempre più credito, approfittando anche delle praterie sconfinate che le possibilità offerte dal web aprivano all’informazione in generale e all’infotainment in particolare. Oggi le pagine partenopee de “la Repubblica” rappresentano – considerando solo la stampa generalista – uno dei principali canali di notizie e aggiornamenti sul fumetto in Italia, al punto che per un certo periodo ha dato spazio anche al graphic journalism con produzioni portate avanti espressamente all’interno della redazione e affidate a sceneggiatori e disegnatori provenienti dalla sede napoletana della Scuola Internazionale di Comics, diretta da Giuliano Monni, e dalla Scuola Italiana di Comix di Mario Punzo.
Contemporaneamente mi aprivo ad ampie collaborazioni con Planeta DeAgostini, con RW-Lion – licenziatarie in due momenti differenti dei diritti delle serie della DC Comics in Italia –, con la 001 Edizioni di Antonio Scuzzarella e con Mondadori Comics.
Diciamo che finora non mi sono fatto mancare nulla.
Nella seconda metà degli anni Ottanta il fumetto aveva conseguito uno status critico e culturale mai raggiunto prima. Alan Moore aveva aperto le porte ad autori britannici, che possedevano una consapevolezza del mezzo e dei generi fumettistici del tutto inedite
Ricordo alcune tue pagine molto intense sul mensile “Hellblazer”, nelle quali ricostruisci il contesto storico-sociale in cui si muove John Constantine, protagonista della serie: dalla battaglia di Beanfield al governo Thatcher, passando per il climax e il tramonto del punk inglese. Un fumetto nato nel cuore del mainstream, ma profondamente autoriale, a contatto con la realtà politica e sociale del tempo, di cui faceva una critica feroce e a tratti commossa. E ovviamente non era l’unico. Molti degli autori di punta di quella generazione hanno costruito la propria arte su quell’urgenza di raccontare e criticare la società, spesso con una grande e felicissima violenza espressiva. Secondo te oggi ci sono opere con lo stesso fervore? Oppure è vero che è cambiato qualcosa? E se sì, cosa?
La forza d’impatto di quella serie – così come, solo per fare degli esempi, di “Swamp Thing”, di “Watchmen”, di “Sandman”, di “Animal Man”, di “Doom Patrol”, del “Daredevil” scritto da Ann Nocenti o dell’“Hulk” di Peter David – derivava dal fatto che gli autori per lanciare le loro idee, i loro messaggi, i loro “j’accuse” utilizzavano il mainstream, riplasmavano generi preesistenti e di successo trasformandoli in qualcosa di nuovo, di eccitante e di profondamente politico insieme. Erano gli anni Ottanta ed era la prima volta che ciò accadeva in maniera così evidente e influente. Ed era la prima volta che il pubblico ne andava alla ricerca.
Oggi un autore avrebbe sulla carta meno difficoltà e dovrebbe risultare meno eversivo nel proporre contenuti di critica socio-politica su un albo a fumetti mainstream, ma spesso e volentieri è il pubblico stesso a rifiutarlo o a non comprenderlo, preferendo un intrattenimento disimpegnato. Solo per fare un esempio: su “Dylan Dog”, fin dai suoi esordi, era normale trovare delle prese di posizione piuttosto abrasive rivolte contro il pensiero e la cultura dominante, mentre oggi gli stessi lettori storici lo rinnegano, affermando che ciò non è mai avvenuto. Ne faccio un altro: certe pagine di “Orfani” della Bonelli presentano contenuti che in certi momenti appaiono perfino sovversivi, ma il tutto è passato, nel migliore dei casi, nell’indifferenza e, nel peggiore, nel rigetto isterico. Negli Stati Uniti, il cosiddetto Comicsgate ha messo addirittura in luce un forte movimento reazionario tra alcune frange di lettori di fumetti: gente capace di muovere campagne di odio e di discriminazione contro quegli autori che, a loro avviso, provano a mutare in chiave progressista lo status di alcuni personaggi e di alcune serie.
L’altra faccia della medaglia è che l’industria e il mercato dei fumetti si sono talmente ampliati e specializzati che adesso puoi andare a scovare qualsiasi contenuto ti possa interessare. In libreria, attraverso graphic novel come “Salvezza” di Rizzo e Bonaccorso o “Appuntamento a Phoenix” di Tony Sandoval puoi farti coinvolgere attraverso il fumetto nel dramma dei migranti, oppure puoi interessarti, procurandoti i paperback della serie “Alters” di Paul Jenkins e Leila Leiz o di “Faith” di Houser, Portela e Sauvage, rispettivamente della prima supereroina transgender e della prima supereroina curvy.
Questo può essere insieme un bene o un male, poiché tutto si diluisce, tutto va a interessare settori super specializzati di pubblico, pur essendo tutto disponibile e facilmente accessibile.
Quale è secondo te, se c’è, la cifra narrativa del fumetto negli ultimi anni. È ravvisabile un trait d’union, una caratteristica sotterranea che accomuna in linea di massima i prodotti contemporanei?
Per sintetizzare il discorso di prima, le case editrici tendono a scovare il proprio settore ultra specializzato; il fumetto continua a parlare dei temi più disparati; qualsiasi genere viene affrontato; l’offerta si è fatta immane; c’è una maggiore coscienza del potere del medium. Il pubblico appare diviso a metà: di frequente la vecchia guardia guarda con sospetto alle novità, facendosi travolgere da impossibili vene nostalgiche, mentre le nuove platee scelgono cosa leggere in maniera meno omogenea e abitudinaria, più fluida e trans-mediale. Il problema è che il pubblico conservatore e nostalgico è quello che maggiormente rincorre il fumetto mainstream, coi suoi personaggi più classici e iconici – Tex, Batman, Superman, Diabolik, Zagor o chi vuoi tu. Quindi i colossi internazionali dell’editoria a fumetti occidentale sono troppo spesso costretti a subirne le pressioni e a farci i conti.
Sempre più prodotti televisivi e cinematografici prendono e rielaborano, con livelli variabili di fedeltà, idee e materiali nati sulle pagine di fumetti. Se questo è iniziato con i cinecomics Marvel e DC, negli ultimi anni la tendenza si sta estendendo a prodotti sempre più di nicchia. Cosa è successo? Hollywood si è improvvisamente accorta del valore della letteratura disegnata?
Più che altro, gli studios si sono accorti del valore di proprietà intellettuali inattaccabili in sede legale che consentono di accedere a un bacino pluridecennale e pressoché inesauribile di storie e concetti già consolidati.
Oggi difficilmente troveresti un George Lucas partire alla riscossa con uno “Star Wars” o un “Indiana Jones” senza valutare il rischio concreto di un consistente numero di persone pronte a intentargli una causa in tribunale rivendicando di aver avuto per prime l’idea. Il concept di Batman – protetto da opportuni copyright e trademark – ha invece consentito a Christopher Nolan di sviluppare una trilogia pulp di alto valore narrativo e artistico. I film dedicati a Deadpool – in assenza di degni epigoni di Stanlio e Ollio o dei fratelli Marx – hanno portato a una rinascita della commedia slapstick sullo stile di Hal Roach e di Mack Sennett. “I Guardiani della Galassia” ha sottratto il monopolio della space-opera cinematografica a “Star Wars” e a “Star Trek”, altrimenti di questi tempi sarebbe risultato impossibile.
Pensi che questo interesse metta in crisi il fumetto? C’è un rischio di fagocitazione, per esempio?
Non credo proprio. Quello che è mutato è il sistema dell’entertainment, che prevede molteplici modalità di approccio e fruizione. Ritorniamo al mio discorso personale di prima: se nel 1948 era possibile immaginare un Tex solo a fumetti, oggi non lo è più, altrimenti sarebbe destinato all’estinzione sul medio periodo. Ma ti faccio notare anche un’altra cosa: pensiamo a Superman: è mai stato solo un personaggio dei fumetti? Sbuca fuori nel 1938 su un magazine a fumetti, è vero, ma il suo successo diventa di massa quando qualche anno dopo si trasforma in protagonista di uno show radiofonico tra i più amati e seguiti della storia americana. A ruota vengono i cartoni animati dei fratelli Fleischer, il primo serial cinematografico live action e ancora, dopo la fine della serie radiofonica, si trasferisce in TV, col telefilm interpretato da George Reeves. A fine anni Sessanta è poi la volta dei cartoons di Hanna & Barbera; a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, dei film con Christopher Reeve; negli anni Novanta, de “Le avventure di Lois & Clark”; all’inizio degli anni Duemila, della fortunatissima “Smallville”. Eccetera eccetera. Stesso discorso vale per Batman. Tra poco “Shazam!” riporterà sul Grande schermo il Captain Marvel della Fawcett (anche se ormai da decenni è proprietà della DC Comics), ma si tratta di uno dei primi personaggi in assoluto ad essere stato protagonista, all’inizio degli anni Quaranta, di un serial cinematografico in bianco e nero, e, a metà degli anni Settanta, di una serie televisiva durata tre stagioni.
Come ha detto Frank Miller, di recente ospite al Napoli Comicon: “Se si ha la possibilità, grazie alla fenomenale CGI di oggi, di mostrare un Superman in carne e ossa che vola come se fosse reale, perché non si dovrebbe sfruttare questa possibilità in tutti i modi possibili restandosene confinati solo sulle pagine di un fumetto? Negli anni Trenta e Quaranta ci eri quasi costretto, vista la scarsità di mezzi. Adesso no.”
Più in generale cosa pensi dei cinecomics? E delle serie televisive? Ce n’è qualcuna che segui con piacere?
Dipende dai cinecomics: se si parla di film come “Scott Pilgrim vs. The World” di Edgar Wright, tratto dalla serie di Bryan Lee O’Malley; di “Captain America: The Winter Soldier”, con cui i fratelli Russo hanno rinverdito lo spirito del “Die Hard” di John McTiernan, o de “Il Cavaliere Oscuro” di Nolan, allora li apprezzo. Laddove il valore autoriale e narrativo si integra con quello commerciale, mi trovi sempre in prima fila. Purtroppo nella maggior parte dei casi non è così.
Le serie TV con protagonisti i personaggi della DC Comics le trovo troppo orientate verso un pubblico adolescenziale e quindi, per ragioni anagrafiche, mi interessano poco. Ciò non esclude che abbia apprezzato alcuni momenti di “Arrow” o di “Gotham”, ovvero quelle più dark, e che diversi episodi di “Lucifer” mi abbiano divertito, non fosse altro perché a curarla c’era Tom Kapinos, creatore di “Californication”.
Tra quelle targate Marvel, mi ha abbastanza soddisfatto la prima stagione di “Daredevil”, mentre invece ho molto amato “Legion”, scritta da quel geniaccio di Noah Hawley. Da altre – “Agents of Shield”, “Agent Carter”, “Inhumans”, “Luke Cage”, ecc. – non sono riuscito a farmi coinvolgere.
Di “The Walking Dead” continuo ad amare molto il fumetto, ma seguo la serie televisiva pigramente, guardandomela per conciliarmi col sonno in tarda serata. È quasi un guilty pleasure. La contraddistinguono snodi narrativi, regie e alcune recitazioni ai limiti del dilettantesco. Ma la mia attrazione per gli zombi non mi ha impedito di cassare la companion series “Fear the Walking Dead”.
Fra le tue attività c’è anche quella di insegnante, con dei seminari di storia del Fumetto. Vuoi parlarcene?
Giuliano Monni, patron della sede partenopea della Scuola Internazionale di Comics, mi ha chiesto in diverse occasioni di svolgere dei seminari sulla storia e i linguaggi del fumetto (ma anche sui generi letterari, sul cinema, sulla Storia dell’Arte). È indispensabile che chi decide di intraprendere il mestiere del fumettista o dell’illustratore abbia ben chiare le coordinate in cui è chiamato a muoversi, ricordandosi sempre che si appoggia sulle spalle dei giganti e che ce ne vuole di fatica prima di diventare giganti a propria volta. Purtroppo non sempre – anzi, quasi mai – gli aspiranti disegnatori si rendono conto di quanta storia, quanta passione, quanta ossessionante fatica occorrano per raggiungere certi livelli.
I miei corsi puntano a incuriosirli, ad ampliare il loro immaginario, a far loro comprendere che si può diventare qualcuno solo se riesci a interiorizzare tanto. Artisti campani del fumetto come Raul e Gianluca Cestaro, Lorenzo Ruggiero (che della Scuola Internazionale di Comics di Napoli è l’art director), Italo Mattone, Fabrizio Fiorentino, ecc., sono famelici, sono lettori onnivori di qualsiasi cosa sia fatta di immagini. Ecco, loro sono un esempio di ciò che un artista chiamato a disegnare per un ampio pubblico dovrebbe fare.
Alla Scuola Internazionale di Comics mi dicono ogni volta che gli studenti adorano le mie lezioni e sentono di uscirne arricchiti. Mi basta.
Hai già fatto cenno al tuo saggio “Supereroi e superpoteri. Miti fantastici e immaginario americano dalla guerra fredda al nuovo disordine mondiale”, edito da Castelvecchi, in cui ricostruisci il rapporto tra la società americana e il mito della narrativa supereroica. Cos’è che lega America e Supereroi?
Un mito dalle origini pop, abbastanza diverso dal mito classico. Sono personaggi che incarnano tutta l’umanità ideale che ha scoperto e edificato l’America: l’esploratore, il pioniere, il minuteman (ovvero il soldato volontario della Guerra d’Indipendenza), il self-made-man, l’inventore e lo scienziato, l’uomo in cerca di giustizia e di riscatto per se stesso e per gli altri. Sono archetipi potentissimi e non classisti, legati a uomini comuni che diventano straordinari e non a uomini straordinari vagheggiati da uomini comuni, ma di fatto irraggiungibili. Basta pensare che i principali supereroi statunitensi, quelli da cui è nato tutto – Superman, Batman e Capitan America – sono stati creati da sceneggiatori e disegnatori ebrei (Jerry Siegel, Joe Shuster, Bob Kane, Joe Simon, Jack Kirby) nel pieno della Grande Depressione e prima dell’ingresso degli USA nella Seconda Guerra Mondiale. Erano agenti di salvezza, guide ideali di un popolo perso nel deserto di un’improvvisa miseria. Si rifacevano più o meno inconsciamente a Mosè prima ancora che a Cristo, mentre i nazisti in Germania esaltavano la mitologia norrena.
Negli anni Cinquanta, poi, questo sostrato pop e naif andò a innestarsi sulla passione per la fantascienza hard di un gruppo di autori nati e cresciuti proprio in quel genere narrativo. Lanterna Verde, per esempio, evidenziava che per gli americani il concetto di dio Apollo era stato sostituito dai sette piloti collaudatori del Programma Mercury, quelli di cui avrebbe scritto Tom Wolfe in “The Right Stuff” e grazie ai quali l’uomo avrebbe raggiunto la Luna.
Pensi che quel rapporto si sia ulteriormente evoluto?
Continua a farlo, certo, in modi insospettabili e spesso ambigui. In un recente ciclo di “Captain America” scritto da Nick Spencer si parla della spinta migratoria che preme dal Messico sui confini degli Stati Uniti, di razzismo, del rigurgito dell’estrema destra violenta e reazionaria in ogni parte del mondo. Ma, di contro, nella serie a fumetti di “The Walking Dead” si può cogliere – così come evidenziato da Daniele Brolli in un’introduzione a uno dei paperback proposti in Italia da saldaPress – uno spirito ultraconservatore con cui Robert Kirkman, senza nemmeno rendersene conto, esalta in qualche modo gli USA così come lo immaginano i falchi repubblicani.
Il fumetto è un linguaggio, una forma espressiva ormai pienamente sviluppata e adulta. È normale che emergano dal suo interno le differenti “visioni” che percorrono il mondo reale.
Per finire, l’angolo vaticini: cosa ti aspetti dagli autori dei prossimi anni?
Una spinta improvvisa e inarrestabile verso l’interattività, frontiera che per questioni produttive di vario genere è stata blandamente toccata, ma senza spingere a fondo. Penso alla Realtà Aumentata, che sembra aver fatto la stessa fine del 3D al cinema, o a una fruizione tramite dispositivi elettronici finora limitata a scroll verticale di pagine e al loro eventuale ingrandimento.
Qualche anno fa due autori francesi, Pierre Cattan e Marietta Ren, produssero una app con la quale era possibile leggere una storia a fumetti, “Phellaina”, che si scorreva col touch scrolling come se fosse un arazzo orizzontale e che presentava effetti visivi e sonori, compresa una soundtrack. Era un’idea assai futurista e affascinante.
In Italia certi limiti li stanno forzando Makkox – coi suoi fumetti satirici animati e musicati – e Sio, con animazioni lanciate su Youtube e contigue alle sue storie a fumetti.
Le mutazioni narrative portate dai social sono poi fortissime, anche se meno evidenti. Sono ormai anni che Roberto Recchioni punta a una narrazione liquida, dove concetti veicolati in una storia a fumetti fluiscono liberamente nelle discussioni sulla sua pagina Facebook e viceversa. Significa che, se il lettore vuole, la storia non termina una volta chiuso l’albo a fumetti, ma prosegue nei pensieri e negli atteggiamenti manifestati dall’autore nella sua comunicazione pubblica. E vi si può prendere parte, interagendo con lui, come in un gioco al rimbalzo.
Sta accadendo anche con Fumettibrutti, nome d’arte di Josephine Yole Signorelli, i cui “fumetti espliciti”, basati su una poetica giovane, punk e sfrontata, si ricollegano alla manifestazione spesso brutale e spiazzante del suo corpo, delle sue fantasie e dei suoi desideri più intimi postati su Facebook, Twitter, Tumblr e Instagram. Puoi andare quindi in libreria ad acquistare il suo “Romanzo esplicito”, edito da Feltrinelli Comics, per poi proseguire la tua esperienza visiva ed emozionale di lettore attraverso un altro mezzo di comunicazione.
Il potenziale ancora da esplorare può essere, in tal senso, virtualmente infinito.