Detroit è una città grigia e fumosa. Passeggiando per le strade di mattina presto si può assistere all’esodo operaio quotidiano: la gran parte degli abitanti di questa città manda avanti la fiorente industria automobilistica che ha sede qui. Il legame tra Detroit e i motori è celebrato anche dove mi trovo adesso, al Detroit Institute of Arts. Gli affreschi che sto ammirando hanno quasi trent’anni, li realizzò nel 1933 il più famoso artista messicano, Diego Rivera, marito di Frida Kahlo.
Con le mani in tasca e i denti che battono per il freddo, mi ritrovo a un certo punto del giro in un quartiere periferico, nulla di bello da vedere. Un salone di bellezza, un’agenzia di pompe funebri; tra le due strutture la mia attenzione viene richiamata dai colpi di martello assestati da un giovane ragazzo di colore ad una tabella piazzata su quella che sembra essere la porta della sua abitazione.
“Tamla Records”, tanto basta a farmi incuriosire: ho trovato inaspettatamente della musica anche in questo freddo 12 gennaio 1959. Ovvio che in non più di qualche secondo sono già sotto la scala ad offrire assistenza al ragazzone, sono proprio curioso di sapere cosa sta combinando.
Berry Gordy ha 30 anni e ha già fallito come sportivo prima e come negoziante di dischi poi. Si è stancato anche di fare il meccanico, ma vuole fare tesoro della sua esperienza in catena di montaggio per trasferirla direttamente nella musica.
“Quella al piano di sopra è casa mia, il regno di mia moglie. Nel garage invece comando io. Ho ricavato una regia da una vecchia cucina e il resto dello spazio l’ho fatto diventare una sala di incisione. Amo la musica, mio nonno era un pianista ed ho un sogno: trasformare questo cesso in una catena di montaggio per artisti. Pensa, un ragazzino normalissimo che entra qua dentro e ne esce trasformato in una star!”.
Sinceramente, a me scappa da ridere. Questo tizio con un mezzo garage attrezzato in maniera del tutto rudimentale sta parlando di grandi star, di grandi sogni…sti americani non smetteranno mai di stupirmi per il loro ottimismo. Anche il padre di Berry ha sborsato abbastanza malvolentieri gli 800 dollari che suo figlio gli ha chiesto per correre dietro a questa chimera. Vabè, non mi resta che stringergli la mano, augurargli ogni fortuna e promettere che un giorno tornerò a trovarlo.
Gli Stati Uniti agli albori dei ’60 sono un paese in fermento totale, col giovane presidente John Fitzgerald Kennedy alle prese con alcuni degli eventi più rilevanti storicamente e politicamente nel XX secolo: la crisi di Berlino e la costruzione del Muro, la corsa alla conquista dello spazio con l’obiettivo della Luna, il progetto segreto per abbattere il regime cubano e la seguente crisi missilistica di Cuba che porta il mondo sull’orlo di una guerra nucleare, l’inizio delle operazioni in Vietnam.
Come se non bastasse c’è la pressione sempre maggiore del movimento per i diritti civili. Le battaglie della comunità afroamericana si fanno sempre più intense, al punto che, mentre nel 1963 sto frugando tra vinili in un negozio, mi ritrovo in mano con somma sorpresa un disco del Reverendo Martin Luther King. È una raccolta di alcuni suoi discorsi tra cui il celeberrimo I Have a Dream. Un particolare risveglia in me il ricordo dell’incontro fatto nel ’59, è il nome dell’etichetta: Gordy. Forse è ora di tenere fede alla promessa fatta a Berry e tornare a Detroit per scoprire cosa è successo alla Tamla Records.
Ebbene amici, la Tamla adesso si chiama Motown – motor-town (la città dei motori) – ed è una fabbrica di successi, tanto che la nuova sede è stata ribattezzata Hitsville. Gordy aveva ragione, e non solo per il fiuto commerciale. La sua casa discografica sta facendo molto di più: diffonde in America Musica Nera. Pop, Funk, Gospel, Soul, Rithm&Blues e Jazz si sono fusi per creare un sound completamente nuovo, che qui già è famoso come Motown Sound.
Ma la Motown non è un semplice studio di registrazione, è davvero una sorta di catena di montaggio! Qui a Detroit, per l’etichetta indipendente più importante degli Stati Uniti, si fatica sodo. Autori, produttori, tecnici e musicisti lavorano a braccetto con coreografi, insegnanti di dizione e addirittura di buone maniere. I talentuosi ragazzi scoperti da Berry qui dentro diventano delle vere star.
Berry ormai è un uomo molto diverso dal ragazzotto che inchiodava la sua insegna pochi anni fa.
È un maniaco del controllo, ogni venerdì si riunisce coi suoi uomini per ascoltare tutta la produzione settimanale. Al mio ingresso sta chiedendo ai ragazzi seduti al suo tavolo se con un dollaro in tasca preferirebbero comprare un sandwich o il disco in questione.
Dall’altra parte, il Motown sound è già inconfondibile: grandi melodie e, soprattutto, grandi ritmiche. Il mio culetto inizia ad ondeggiare alle prime note sincopate del leggendario basso di James Jamerson.
Gordy mi saluta con un sorrisone: “Questa è musica per bianchi, negri, ebrei, stranieri. È musica per gli sbirri e per i rapinatori. È musica pure per te, amico mio!”.
E come dargli torto? Nel primo anno di attività Berry ha già piazzato tre singoli al primo posto in classifica con Barrett Strong e i The Miracles.
Non finirà qui: nel decennio dal 1960 al 1970 il mercato americano sarà trasformato da una serie di dischi incredibili da Marvin Gaye alle Supremes e ai Jackson 5, passando da Stevie Wonder. La carrellata di nomi è sterminata coi Temptations, i Commodores del giovane Lionel Richie, Diana Ross, Ne-Yo e molti, molti altri.
Quello della Motown è il primo grande tentativo (riuscitissimo) di integrazione razziale nella storia della musica americana. Grazie a Berry, meccanico, pugile e negoziante “fallito”, finalmente la musica Nera arriva forte e decisa alle orecchie di tutti senza nessun compromesso, anzi, carica di tutta la sua perforante identità, fatta di grandi artisti, sound inequivocabile e una vagonata di groove.
Eh si, posso dirlo ancora, questi americani non smetteranno mai di stupirmi!