Intervista alla giornalista napoletana Maria Tavernini autrice del libro NO GOING BACK. Casa editrice, Prospero Editore, pp. 290
Un viaggio attraverso le storie e le battaglie della giovane generazione LGBTQIA+ indiana: millennials urbani cresciuti negli anni della globalizzazione e della connettività digitale, anche se all’ombra di una legge coloniale che per 157 anni ha criminalizzato l’omosessualità. Volti più o meno noti del movimento, persone che combattono ogni giorno per affermare la propria identità in una società tradizionale, patriarcale e eterosessista, solcata da profonde disuguaglianze.
Un libro/reportage in cui la giornalista ha dato voce direttamente al popolo indiano attraverso il suo racconto e le immagini del fotografo Andrea de Franciscis
Del tuo libro la prima cosa che mi ha colpito è il titolo NO GOING BACK (NON SI TORNA INDIETRO) da cosa?
“No going back” era lo slogan che ha contraddistinto i Pride e le manifestazioni dal 2013, anno in cui la Corte suprema indiana aveva ribaltato una precedente sentenza del 2009 che depenalizzava l’omosessualità rendendo le relazioni omosessuali di nuovo un crimine. In quegli anni il movimento LGBTQIA+ si era compattato per affermare i diritti della comunità al grido di “No going back”, appunto: ossia “non si torna indietro” a una legge coloniale, la Sezione 377 del codice penale, che definiva l’omosessualità un atto “contro natura”, un crimine equiparato alla zoofilia e alla pedofilia che prevedeva pene fino a 10 anni. Gli anni tra il 2013 e il 2018 hanno visto un movimento dal basso trasversale con grandi manifestazioni pubbliche fino a quando, nel settembre del 2018, una sentenza storica della Corte suprema ha nuovamente depenalizzato i rapporti tra persone dello stesso sesso dopo una battaglia legale durata 17 anni. È importante sottolineare che il binarismo di genere e la criminalizzazione delle sessualità non normate sono stati imposti dai colonizzatori britannici nel 1861 in un Paese in cui diverse esperienze di genere e sessualità erano invece storicamente e culturalmente non solo tollerate ma anche riverite: per 157 anni la Sezione 377 ha profondamente permeatola società indiana.
Da italiana, come sei stata accolta in India?
L’India per me è stata una seconda casa, per 8 anni. Ci ho vissuto lavorando a reportage e inchieste su tematiche sociali, diritti umani e questioni di genere, nel quadro dei più ampi cambiamenti politico-sociali in un periodo storico di grossi cambiamenti per il Paese sotto la guida di un partito etno-nazionalista che ha messo in atto politiche sempre più autoritarie e maggioritarie. Quando sono arrivata in India, nel 2011, la leader del Congress (lo storico partito della famiglia Gandhi, all’epoca al governo) era Sonia Gandhi, di origine italiana, vedova di Rajiv Gandhi a madre di Rahul, rampollo della dinastia politica più famosa d’India. Quando chiacchieravi con la gente in strada e ti chiedevano di dove eri, tutti dicevano entusiasti, “Oh, Sonia Gandhi” invece del solito “Italia: pizza, pasta”. L’India è un Paese immenso e variegato solcato da profonde diversità e differenze che ti accoglie a braccia spalancate, con i suoi odori, tradizioni e anche profonde contraddizioni, ma sa essere un posto molto duro e respingente, soprattutto per le donne, dalle quali ho invece ricevuto un enorme supporto, una solidarietà femminile profonda.
Perché hai deciso di fare un reportage a sfondo queer?
Questo libro nasce da un reportage realizzato tra il 2018 e il 2019 con il fotografo Andrea de Franciscis. L’idea di un reportage sulla giovane generazione queer indiana era nata alla fine del 2017, quando la Sezione 377 era ancora in vigore e la comunità stava combattendo la battaglia legale per l’emendamento che avrebbe legalizzato i rapporti omosessuali tra adulti consenzienti nella sfera privata. Ci siamo trovati quindi a vivere in India proprio negli anni in cui l’omosessualità è stata prima ri-criminalizzata e poi nuovamente decriminalizzata: è stato un periodo di grosso fermento. Quando abbiamo cominciato a raccogliere i ritratti e le interviste che sono poi confluite in questo libro, per il movimento queer era il momento culminante di una battaglia che aveva unito una comunità molto frammentata. Nel settembre del 2018 l’omosessualità è stata infine decriminalizzata mentre, nel 2019, dopo tre anni di proteste, è passata la legge sulla protezione dei diritti delle persone transgender: abbiamo così continuato a seguire il movimento e le persone incontrate per capire cosa fosse cambiato. Determinante per questo lavoro è stato il supporto del mi* amic* (nel libro uso il suo nome di allora – dead name – Sambhav, ma ora ha scelto il nome Batool per la sua transizione) – la cui storia è il filo conduttore del libro – grazie al* quale, da donna etero, cis e occidentale, ho avuto un accesso privilegiato alla comunità: la sua intercessione è stata imprescindibile nel contattare le persone che mi hanno rilasciato le interviste e hanno posato per i ritratti. Sono grata a Batoolper il suo aiuto e a tutt* loro per la fiducia e l’apertura con la quale mi hanno lasciata entrare negli aspetti più intimi e a volte dolorosi delle loro vite: le loro storie e testimonianze danno struttura al libro – io mi sono limitata a metterle in fila e dare un contesto -, la polifonia delle loro voci disegna una cartografia dei diritti queer in India, con le differenze enormi dettate dalle intersezioni con casta, genere, religione, provenienza geografica e sociale. Abbiamo raccolto testimonianze dal Kashmir (estremo nord) al Kerala (estremo sud).
Che vuol dire essere gay o transessuali in India oggi?
Essere queer in India non è semplice e la comunità continua a combattere stereotipi, odio e discriminazione, tutt’oggi. La decriminalizzazione dell’omosessualità è stata certamente un grande passo in avanti nella scalata per la conquista della parità di diritti e le cose sono molto cambiate negli ultimi anni. L’annosa criminalizzazione ha avuto gravi conseguenze nella vita quotidiana della comunità: per anni la legge ha avallato molestie, violenze, ricatti e intimidazioni da parte delle forze dell’ordine e delle famiglie rendendole persone – soprattutto i segmenti più marginalizzati – estremamente vulnerabili. Quindi sicuramente l’abrogazione della Sezione 377 è stata una grande conquista ma ciò non significa che l’omosessualità e le identità di genere non-normate siano pienamente accettate oggi. Sebbene siano stati fatti notevoli progressi, nei luoghi pubblici e nella società continuano a esistere stigma e discriminazione. Gli /le attivist*intervistat* hanno sottolineato come si sia trattato di un passaggio fondamentale, anche se molto poco è poi cambiato nella vita di tutti giorni. Uno dei cambiamenti principali è stato che le persone non hanno più paura di essere denunciate. Ma ci sono ancora molti limiti, ad esempio la sentenza ha legalizzato solo i rapporti tra adulti consenzienti nell’ambito “privato”: si potrebbe dire molto in merito. Il processo per la reale inclusione e accettazione è ancora lungo. Molti attivisti, in particolare quelli anti-casta, puntualizzano che è necessario parlare dell’inclusione delle minoranze sessuali e delle persone transgender: la battaglia LGBTQIA+ è stata anche il luogo di incontro di varie minoranze oppresse.
Quanto influisce l’assetto religioso sul movimento gay nel paese?
La religione ha un ruolo determinante in India nel plasmare i valori e i comportamenti individuali: mentre l’induismo è la religione dell’80% della popolazione,quella musulmana è la più grande minoranza religiosa del Paese con oltre 200 milioni di fedeli; ci sono poicristian*, sikh,buddhist*. La Corte Suprema ha decriminalizzato i rapporti omosessuali proprio negli anni in cui il BharatiyaJanata Party, il partito etno-nazionalista del premier Narendra Modi, appena eletto per il suo terzo mandato consecutivo, consolidava il suo potere, ridefinendo i confini sociali, ideologici e morali del Paese. Come spiego nel libro, questa coincidenza non deve però far pensare che i nazionalisti della destra hindu in qualche modo supportino i diritti delle minoranze sessuali, anche se qualcosa sta cambiando negli ultimi anni, più per pink-washing (in chiave liberale e anti-islamica) che per reale volontà di inclusione. La destra hindu è tradizionalmente omofoba e anche se negli ultimi anni si è assistito a un ammorbidirsi delle sue posizioni verso le minoranze sessuali, è un cambiamento strategico, di facciata. Anzi, la radicalizzazione del discorso politico sotto questo governo si ripercuote fortemente anche nell’ambito queer, creando nuove linee di frattura all’interno di un movimento già molto frammentato.
Quali sono le icone gay indiane?
Sebbene il movimento queer in India sia relativamente “recente” non è nato dal nulla: è stato il prodotto di anni di lotte perché alla comunità fosse garantito un posto nella società, una lotta che continua tutt’oggi. Tra le icone del movimento queer indiano – spesso accusato di essere dominato da una élite urbana di alta casta–più note dei nostri giorni ci sono il principe Manvendra Singh Gohil della famiglia reale del Gujarat, il primo principe apertamente gay in India; Grace Banu, un’attivista e ingegnera informatica, fondatrice del Trans RightsNowCollective, che ritiene che l’intersezionalità dell’oppressione e il riconoscimento della discriminazione castale all’interno della comunità siano cruciali nella battaglia per i diritti queer; SaleemKidwai, esperto di storia medievale e autore del libro Same-Sex Love in India: Readings from Literature and History, scritto a quattro mani con Ruth Vanita, uno dei primi accademici a parlare pubblicamente come membro della comunità (il testo, che cito anche nel libro, è una minuziosa disamina delle relazioni omoerotiche in India nel corso di 2000 anni di storia ed è stato anche utilizzato come prova durante il ricorso contro la Sezione 377); NavtejJohar, ballerino-coreografo, studioso e attivista, è tra i cinque VIP che hanno contestato la Sezione 377 presso la Corte Suprema, che ha portato alla storica sentenza del 2018; ManekaGuruswamy è un’avvocata e professoressa di diritto che ha svolto un ruolo significativo in molti casi epocali, tra cui quello contro la Sezione 377; Keshav Suri, un imprenditore apertamente e orgogliosamente gay, direttore del gruppo di hotel di lusso The Lalite fondatore delKitty Su (uno dei nightclub più longevi e inclusivi d’India che ospita spesso serate drag),è stato tra i firmatari della petizione per l’abrogazione della Sezione 377;LaxmiNarayanTripathi, attivista trans, è un volto noto nei forum internazionali, probabilmente l’attivista hijra più nota d’India che ha avuto un ruolo chiave nel riconoscimento legale delle identità di genere emarginate: è anche grazie al suo impegno che la Corte Suprema nell’aprile 2014 ha dato valenza legale a una classificazione che comprende un terzo genere, né maschile né femminile. Ce ne sono molte altre, ovviamente. Molte delle persone che ho intervistato invece sono volti più o meno noti del movimento, tutt* giovanissim*, vengono da diverse parti dell’India nel tentativo di rappresentare la complessa geografia del movimento e delle esperienze personali che ho avuto il privilegio di raccogliere.
Cosa ti manca (e cosa no) dell’ India?
Di sicuro mi manca il cibo, le spezie mescolate con maestria, i colori e la musica a ogni occasione. Un giorno ho assistito a una conversazione tra una turista francese, che si lamentava della musica assordante per un matrimonio (che in India durano tre giorni) subito dopo un festival religioso, anche questo al suono perpetuo della musica, e il suo interlocutore, che le ha risposto con un sorriso beffardo: “Sorry ma’am, we are a very happy country” (mi dispiace signora, siamo un Paese molto felice). Dell’India mi manca la sua umanità, la sua indisciplinatezza, l’ironia della gente e la filosofia sciorinata nelle piccole cose del quotidiano. Non mi mancano la violenza e le ingiustizie così lampanti e normalizzate, lo smog e la polvere, le ore nel traffico e la pressione patriarcale così esplicita (da noi è più velata).