Continua la rassegna di DJ Set d’autore di Scalo 28. Venerdì 6 gennaio è stato il turno di Bunna. Nome d’arte di Vitale Bonino, cantante, chitarrista e fondatore degli Africa Unite, Bunna è assieme a Madaski – con cui ha fondato il gruppo nel 1981 – fra gli esponenti più noti e importanti della scena reggae in Italia.
Entro nel club con le note di Stir it Up di Marley che mi girano in testa. Bunna è fra i tavoli, l’ampio berretto grigio che gli copre i dread, chiacchiera tranquillo prima che la serata cominci. L’occasione è giusta per fargli qualche domanda sul suo rapporto con questo genere musicale, legato come pochi ad una controcultura complessa e dai profondi risvolti ideali, che fin dal suo primo apparire non ha perso il suo fascino.
Con gli Africa Unite hai iniziato a fare musica nell’81; nell’88 il primo disco, Mjekrari. Ma come è iniziata? Come ti sei avvicinato alla musica al reggae?
Ma guarda, prima di ascoltare il reggae sentivo un po’ di tutto, non è che avessi un genere preferito. A un certo punto, ricordo che attraverso dei compagni di scuola mi è arrivata casualmente una cassetta di Marley, e ascoltandola mi sono reso conto che quella musica suonava in un modo completamente diverso da ciò che avevo ascoltato fino ad allora. Mi ha incuriosito, così naturalmente ho approfondito un po’, cercando di capire che cosa fosse. Bene o male già strimpellavo la chitarra con degli amici, ma sai così in modo molto “ignorante”. Fra questi amici c’era anche Madaski, con cui abbiamo tirato le fila di questo progetto fin dall’inizio. Così, ad un certo punto ci siamo detti “proviamo se siamo in grado di suonare questo genere”.
Sai, era molto lontano dalle cose che eravamo abituati a suonare, quindi la prima sfida è stata imparare la tecnica, come fare per rendere il suono quello che doveva essere. Chiaramente abbiamo iniziato facendo pezzi di Marley, per poi man mano iniziare anche a scrivere delle cose nostre. Però sempre mantenendo l’attitudine che Marley ci aveva insegnato: certo quella musica era godibile e tutto quanto, ed era importante che lo fosse. Ma la cosa che abbiamo ritenuto sempre fondamentale era il fatto che Marley l’avesse sempre utilizzata come veicolo, per far passare dei messaggi. Abbiamo sempre cercato, in tutti i nostri lavori, in tutte le nostre canzoni, di portare avanti questo tipo di attitudine. Secondo noi qualcuno che ha un minimo di appeal sul suo pubblico ha il dovere quanto meno di dire delle cose, di fornire degli spunti di riflessione su degli argomenti, dire da che parte sta su delle questioni. Poi chiaramente il pubblico decide da che parte schierarsi, se è d’accordo oppure no. Però questa funzione diciamo educativa, politica mi sembra una parola grossa ma certo sociale, abbiamo sempre pensato che fosse una cosa assolutamente importante. E insomma dai primi dischi fino all’ultimo (People Pie, del 2021 nde), abbiamo sempre cercato di mantenere questo atteggiamento.
Questo ci porta in qualche modo alla seconda domanda: gli Africa sono stati tra i gruppi che hanno portato il reggae in Italia, all’epoca. E il reggae è come dicevi, uno dei generi musicali più strettamente intrecciati con un contenuto ideale e un messaggio sociale. Quindi cosa ha significato all’epoca portare il reggae in Italia?
Era sicuramente una operazione che ci ha appassionato sin dall’inizio, anche perché come dicevi giustamente tu era una roba pionieristica: quando abbiamo iniziato noi, di gruppi reggae in Italia ce n’erano tre o quattro, non di più.
Era interessante anche il rapporto con il pubblico. Innanzitutto vedere il pubblico del reggae, che rispetto agli ultimi anni, all’epoca era molto più connotato, da tutti i punti di vista: per quanto riguardava l’abbigliamento, le abitudini che aveva…
Dal canto nostro abbiamo sempre cercato di dare dei messaggi e fornire degli spunti di riflessione su delle cose che noi pensavamo essere importanti, ma in quel momento nessuno dei gruppi reggae presenti in Italia faceva questo tipo di discorso. Il rapporto col reggae era per lo più solamente musicale, ritmico. Invece secondo noi era importante aggiungere delle cose, aggiungere del contenuto.
Quando abbiamo cominciato l’unico modo che avevamo per promuovere la nostra musica, il nostro nome e, insomma, cercare un minimo di popolarità era quello di suonare. Quindi nei primi anni abbiamo suonato veramente dappertutto, ovunque fosse possibile. Dove ci pagavano e dove non ci pagavano, perché quello era l’unico mezzo per arrivare al pubblico. Col passare degli anni, le cose sono un po’ cambiate. Il ‘93, con il disco Babilonia e poesia, è stato il momento che ha segnato il passaggio a una dimensione un po’ più professionale. Per la prima volta abbiamo visto l’interessamento di una casa discografica, anche se indipendente, che era la Vox Pop. Ci ha messo a disposizione un budget per fare il disco, un ufficio stampa per la comunicazione, e ha organizzato una distribuzione in grado di portare il prodotto a livello nazionale. Quello è stato sicuramente un bel salto: il momento in cui abbiamo pensato che forse quella passione poteva diventare qualcosa che avrebbe potuto permetterci di vivere, o quanto meno di sopravvivere. È stato sicuramente un bel momento.
Poi quel disco lì è stato importante anche per un altro motivo, dato che ha segnato il passaggio con il cantato in italiano, cosa che ha significato molto per noi. Sai, abbiamo sempre ritenuto che il nostro pubblico fosse sostanzialmente l’Italia. altri gruppi, soprattutto dell’ultima ora, si rivolgono ad una platea più internazionale, e cantano in inglese o addirittura in patois jamaicano. Quello non ci è mai più di tanto interessato. Certo, abbiamo mantenuto l’inglese negli anni, abbiamo sempre scritto anche dei pezzi in inglese, ma a quel punto sentivamo la necessità di cantare in italiano, affinché il nostro pubblico potesse comprendere meglio le cose che avevamo da dire. Quindi anche da quel punto di vista lì quel disco è stato lo spartiacque tra prima e dopo.
Il che ci porta alla terza domanda, l’importanza e la difficoltà della lingua. Come hai detto, l’italiano è stato un modo per avvicinarsi al vostro pubblico, per rendere più comprensibili i testi e di conseguenza centralizzare il contenuto delle canzoni, al di là del ritmo.
Quello che mi incuriosiva è cosa ha comportato questa svolta linguistica del ’93, potremmo chiamarla così. Come influisce sulla composizione l’utilizzo di una lingua diversa. C’è una differenza fra lo scrivere in italiano e in inglese?
Sicuramente. Innanzitutto devo dire che il passaggio all’italiano non è stata un’operazione facile. Non eravamo abituati a sentire quella lingua sul quel ritmo; era una roba abbastanza strana e ostica. Chiaramente quando scrivi qualcosa in inglese scegli delle parole anche in base al suono che hanno, al di là chiaramente del significato. In italiano devi trovare le parole giuste, perché il rischio di risultare scontato è dietro l’angolo. E in più le parole hanno un suono diverso, l’italiano è molto tronco, molto difficile. Per questo ad esempio il dialetto è sicuramente più facile, perché ha un a musicalità diversa. Infatti se analizzi i primi testi scritti in italiano a volte tendono ad essere sin troppo ermetici… proprio per non correre il rischio di essere scontati. Ma quello è stato l’escamotage iniziale. Però devo dire che facendolo negli anni è diventato più semplice. Ci siamo abituati ad ascoltare e tutto è venuto più facile. È stato complicato, ma abbiamo dimostrato che c’è modo di fare reggae anche in italiano. E in fondo dopo quarant’anni siamo ancora qua a parlare di questo progetto, e con un nuovo disco uscito da poco.
Con quello precedente, Contro il tempo, che risale a non molto prima, il 2019, e tanti altri progetti in parallelo…
Si siamo sempre stati produttivi. In questi ultimi quarant’anni chiaramente i musicisti sono cambiati, chi per un motivo chi per l’altro. Ma io e Madaski siamo riusciti a trovare l’equilibrio necessario per portare avanti questo progetto, che abbiamo sempre ritenuto essere il nostro progetto centrale. Nonostante il fatto che noi due siamo due persone e due musicisti anche molto diversi per un sacco di motivazioni: attitudine, ascolti, tutta una serie di robe….
Secondo me il motivo per cui è durato così tanto, che siamo andati avanti così tanto tempo, è sicuramente il fatto che ci ha sempre divertito fare questa cosa. In particolare l’aspetto del live è quello dove ci divertiamo di più, e dove ci riconosciamo anche di più.
Un altro segreto è che nel corso degli anni ognuno è riuscito a ritagliarsi i propri spazi, le proprie esperienze al di fuori del progetto centrale. Al di là degli Africa, Madaski si è preso le sue libertà facendo dei dischi di musica elettronica un po’ più pesante e terroristica se vuoi. Io mi son preso la libertà di suonare 12 anni il basso con i Bluebeaters, che è stata un’altra dimensione molto molto interessante. E ogni volta che si tornava a lavorare con gli Africa, si portavano avanti delle intuizioni e delle atmosfere che avevamo vissuto durante la pausa.
Negli ultimi anni c’è stato anche un ritorno da parte tua ad un Marley più acustico, con il progetto dei Double Trouble…
Sì esatto, quello è un progetto degli ultimi anni. Chiaramente da Marley non si può prescindere, è quello che ci ha fatto innamorare di questa musica. Penso che nell’ambito del reggae non sia mai stato raggiunto quel livello lì, da tutti i punti di vista: del carisma, del messaggio… Ascolti un disco di Marley oggi e risulta ancora fresco sia dal punto di vista musicale che da quello dei contenuti. È incredibile, pazzesco. Double Trouble era un progetto che Zibba e Raphael portavano già avanti da tempo. Quando mi hanno chiesto se mi andava di far parte di questa combo chiaramente sono stato molto contento e onorato.
A volte è un po’ difficile trovare gli spazi e i tempi, perché chiaramente ognuno ha le sue cose. Però quando riusciamo è sempre una bella sensazione. Per fortuna il progetto è molto semplice: Zibba fa le basi usando un looper e io e Raphael cantiamo. Ma proprio questa sua semplicità lo rende molto suggestivo.
Come è cambiato in questi quarant’anni il mondo del reggae in Italia?
Beh il reggae sicuramente ha conosciuto dei momenti di hype veramente molto alti, soprattutto negli anni ‘90 e anche una parte dei 2000. Poi ha disceso un po’ la china. Non penso sia l’unica ragione, ma sicuramente una delle motivazioni che hanno fatto perdere un po’ di appeal a questo genere è stata la fine di festival come il Reggae Sunsplash, che propagandavano un certo tipo di musica, un certo tipo di cultura, di attitudine anche sociale. Il fatto che sia mancata questa cosa ha fatto anche perdere un po’ di qualità.
Poi insomma, vedo anche un altro aspetto che ha cambiato un po’ le cose, e che ci ricollega a quello che dicevamo prima. Negli ultimi anni ci sono stati fenomeni come quello di Alborosie, che dopo i Reggae National Tickets, nel 2001 è andato in Giamaica e ora canta in patois jamaicano. Il suo successo ha aperto la strada ad un approccio differente. Tutta una serie di artisti italiani che bazzicavano in questo genere hanno pensato che forse quella sarebbe stata la strada giusta da seguire: rivolgersi ad un pubblico internazionale e cantare neppure in inglese, ma proprio in patois jamaicano. Ma a essere sincero noi l’abbiamo sempre vista come una roba che rischia di essere un po’ farlocca; come se un gruppo di neri del Bronx venisse in Salento a cantare la pizzica, capito? Potresti risultare veramente poco credibile. Quel tipo di operazione l’abbiamo sempre tenuta lontano, perché la cosa che abbiamo sempre ritenuto importante, per un gruppo come il nostro, è la coerenza, il non voler sembrare qualcosa che non siamo o fare qualcosa che non ci appartiene. E anche il fatto di cantare in italiano fa parte di questa identità. Penso che sia fondamentale.
Abbiamo parlato del passato, parliamo del futuro. Ci sono progetti in arrivo?
Beh il disco è uscito a maggio quindi da non molto tempo. Stiamo già cominciando a scrivere delle cose nuove, però chiaramente non ti so dire quando usciranno. A breve faremo uscire un video che abbiamo girato durante il tour di concerti di quest’estate. È il video di uno dei pezzi del disco, Sette secondi, prettamente live, dove si percepisce molto quella atmosfera che ci è congeniale. Poi abbiamo in testa un disco di dub version, con dei dub master di quelli forti, che dobbiamo ancora individuare ma che bene o male abbiamo già in testa. Poi magari qualche remix.
Abbiamo fatto molti concerti, ci piacciono molto come ti dicevo. Veniamo da un tour estivo di 25 date, a dopo quelle abbiamo già fatto due concerti nei club, a Milano e Modena. Prima di ricominciare all’aperto abbiamo in mente altre date: Bologna, Firenze, Roma, Napoli. La nostra agenzia sta lavorando a questo tipo di programmazione. Appena ci saranno le date ti faremo sapere.