L’odierna tappa del nostro giro d’Europa letterario ci vede approdare in Irlanda che vanta un patrimonio letterario incredibilmente ricco e variegato, avendo dato i natali a ben 4 Premi Nobel per la letteratura: William Butler Yeats nel 1923; George Bernard Shaw nel 1925; nel 1969 a Samuel Beckett; Seamus Heaney nel 1995. Patria di autori di livello internazionale come Edna O’Brien, Seamus Deane, William Trevor e Roddy Doyle.
Buon viaggio, tra libri, trifogli, birra e mitologia fantastica.
Gente di Dublino di James Joyce
Considerati tra i capolavori della letteratura del Novecento, questi quindici racconti – terminati nel 1906 ma pubblicati soltanto nel 1914 perché per la loro audacia e realismo gli editori li rifiutarono – compongono un mosaico unitario che rappresenta le tappe fondamentali della vita umana: l’infanzia, l’adolescenza, la maturità, la vecchiaia, la morte. Fa da cornice a queste vicende la magica capitale d’Irlanda, Dublino, con la sua aria vecchiotta, le birrerie fumose, il vento freddo che spazza le strade, i suoi bizzarri abitanti. Una città che, agli occhi e al cuore di Joyce, è in po’ il precipitato di tutte le città occidentali del nostro secolo.
Uno splendido isolamento di Edna O’Brien
In una grande casa, immersa nel verde sterminato della campagna irlandese, vive Josie, una donna rimasta ormai sola con i ricordi di un matrimonio infelice. Fino a quando nella sua esistenza non entra McGreevy, un membro dell’Ira inseguito dalla polizia e dall’esercito, che in cerca di un rifugio irrompe tra le mura del suo isolamento. Nell’oscurità e nel silenzio di quella casa, da cui non possono uscire, lentamente si avvicinano: lei vede in lui il figlio che non ha mai avuto, lui le fa comprendere il dramma del loro popolo. Con una scrittura potente e piena di grazia Edna O’Brien ci mostra due solitudini distanti, che si specchiano l’una nell’altra e si riconoscono, ma alle quali il destino tragico della storia non lascerà scampo.
La tana del Verme Bianco di Bram Stoker
Nel cavernoso distretto del Derbyshire, in Inghilterra, circola una leggenda terribile, di lontana origine druidica, su un mitico serpente pronto a uscire dalle viscere della terra. Ma è davvero solo una leggenda? O sotto le voci raccontate si annida una tremenda verità? Cosa nascondono gli oscuri personaggi che popolano Castra Regis, la dimora ai limiti del distretto della dimora della famiglia Caswall, e l’erudito ma violento signorotto del luogo, i cui poteri paranormali sono oscuri e forti quanto le tempeste che scuotono le montagne vicine? E chi è Oolonga, il suo misterioso servitore così abile nei riti voodoo? Ma soprattutto, quale spaventoso segreto nasconde l’aristocratica e affascinante lady Arabella March, la nobildonna che cammina senza timore in mezzo alle vipere e aspira alla conquista di Castra Regis? Un avvincente romanzo del terrore dell’autore del classicissimo “Dracula”, che conferma le sue qualità di grande narratore e ci dà un’ulteriore prova della sua capacità stilistica in questo affascinante e cupo “La tana del verme bianco”.
Con affetto, Rosie di Nuala O’Faolain
Dopo una vita passata a lavorare in giro per il mondo, a cinquantacinque anni Rosie Barry decide di tornare a Dublino, per prendersi cura della zia Min, depressa e sulla via dell’alcolismo. All’inizio la convivenza tra loro non è facile; Rosie si sente estranea alla donna che le ha fatto da madre, si rende conto di come le loro vite si siano sempre sfiorate senza toccarsi. Per entrambe, a segnare la svolta è un viaggio a New York. Rosie decide di raggiungere Markey, suo amico d’infanzia, che la introdurrà nel mondo editoriale: il suo progetto è quello di scrivere un libro di autoaiuto che raccolga pensieri “sulla metà del cammino”. Ma, a sorpresa, zia Min lascia la casa di riposo in cui era temporaneamente ricoverata e raggiunge Rosie. L’America per lei sarà una vera scoperta, l’inizio di una rinascita: a sessantanove anni trova lavoro in un ristorante e va a vivere in una roulotte con la nuova amica Luz. Di ritorno in Irlanda, intanto, Rosie ha il tempo di meditare sul suo passato, sulle relazioni che ha avuto, sui cambiamenti del corpo e sui nuovi bisogni di questa seconda metà della sua vita. A distanza, le due donne si riavvicinano grazie alle lunghe telefonate del sabato sera. Al contrario di Min, Rosie scopre la necessità di mettere radici nella terra della sua infanzia e di riunire i suoi affetti. E scopre che, fra i pensieri sulla metà del cammino, il più importante, la vera salvezza, è l’amore dato e ricevuto, che “si manifesta in un’infinità di forme e di disegni”.
Ehi, prof! di Frank McCourt
Negli anni Cinquanta, i cieli delle città americane (e anche gli schermi dei relativi cinema) pullulavano di oggetti volanti non identificati. L’oggetto che il primo giorno di scuola attraversa il cielo della classe, sotto gli occhi attoniti del professor Frank McCourt, è invece identificabilissimo – in un panino che l’immancabile mamma italiana ha farcito, a beneficio del suo pupo, con peperoni, cipolla, formaggio fuso e mortadella. Se la prima inquadratura del libro risulta quantomeno inattesa, l’epilogo della sequenza, col professore che raccoglie il panino e lo mangia lentamente davanti alla scolaresca annichilita, è destinato a restare. E a farci vivere il clima delle trentatremila ore di lezione (cifre dell’autore) che McCourt terrà nei tre decenni successivi, in varie scuole – tecniche e non – sparse fra Brooklyn, Manhattan e Staten Island. Per ragioni di spazio non tutti i dodicimila rissosi e pestiferi studenti di McCourt compaiono qui – ma la loro fragorosa presenza, filtrata dalla psiche sovraesposta del docente, ci assale e ci delizia. E se i lettori delle Ceneri di Angela e di Che paese, l’America sanno già cosa aspettarsi da McCourt in termini di sarcasmo, empatia e comicità allo stato puro, quelli di Ehi, prof! scopriranno come i tre elementi possano fondersi a caldo in un genere completamente nuovo, che difficilmente troverà, in futuro, epigoni all’altezza.
La famiglia Aubrey di Rebecca West
Gli Aubrey sono una famiglia fuori dal comune, nella Londra di fine Ottocento. Nelle stanze della loro casa coloniale, fra un dialogo impegnato e una discussione accanita su un pentagramma, in sottofondo riecheggiano continuamente le note di un pianoforte; prima dell’ora del tè accanto al fuoco si fanno le scale e gli arpeggi, e a tavola non si legge, a meno che non sia un pezzo di papà appena pubblicato. Le preoccupazioni finanziarie sono all’ordine del giorno e a scuola i bambini sono sempre i più trasandati; d’altronde, anche la madre Clare, talentuosa pianista, non è mai ordinata e ben vestita come le altre mamme, e il padre Piers, quando non sta scrivendo in maniera febbrile nel suo studio, è impegnato a giocarsi il mobilio all’insaputa di tutti. Eppure, in quelle stanze aleggia un grande spirito, una strana allegria, l’umorismo costante di una famiglia unita, di persone capaci di trasformare il lavaggio dei capelli in un rito festoso e di trascorrere «un Natale particolarmente splendido, anche se noi eravamo particolarmente poveri». È una casa quasi tutta di donne, quella degli Aubrey: la figlia maggiore, Cordelia, tragicamente priva di talento quanto colma di velleità, le due gemelle Mary e Rose, due piccoli prodigi del piano, dotate di uno sguardo sagace più maturo della loro età, e il più giovane, Richard Quin, unico maschio coccolatissimo, che ancora non si sa «quale strumento sarà». E poi c’è l’amatissima cugina Rosamund, che in casa Aubrey trova rifugio. Tra musica, politica, sogni realizzati e sogni infranti, in questo primo volume della trilogia degli Aubrey, nell’arco di un decennio ognuno dei figli inizierà a intraprendere la propria strada, e così faranno, a modo loro, anche i genitori. Personaggi indimenticabili, un senso dell’umorismo pungente e un impareggiabile talento per la narrazione rendono La famiglia Aubrey un grande capolavoro da riscoprire.