«Io sono Dio!». Così Stan “The Man” Lee amava prendersi gioco dei suoi collaboratori alla Marvel, soprattutto i più giovani, riflettendo il senso profondo di un rapporto ontologico tra “Lui” e “gli altri” in cui Lui era il demiurgo, il creatore, e gli altri, i semplici esecutori o ri-modellatori dell’idea (la sua, ovvio). Non si trattava di semplice gerarchia aziendale: il contesto era quello degli Stati Uniti della seconda metà del XX secolo. Usciti vincitori dalla guerra, gli USA hanno una storia culturale ancora acerba, almeno se paragonata a quella delle grandi democrazie europee, che affondano le radici nella romanità. Così, on l’obiettivo di costruire un discorso egemonico, gli americani (perlomeno quelli più illuminati e pugnaci) hanno covato, negli ultimi 50 anni, l’aspirazione a rappresentarsi come uomini guida dell’occidente postmoderno, non avendo retaggi nella prima modernità. In questo senso l’opera di Lee, nel solco di autori come Ezra Pound, ha fatto da collante e da propulsore ideologico. In altri termini l’egemonia culturale dell’impero americano, oggi indiscussa, fu possibile anche grazie alle imprese degli eroi dell’universo Marvel.
Deve essere chiaro infatti che quell’universo pop non venne concepito in maniera neutrale; anche se il core business rimaneva l’intrattenimento, l’effetto finale, se non l’obiettivo culturale, non si limitò a quello. Attraverso le storie dei supereroi (non tutti di segno positivo o buonista: si pensi all’iniziale ambiguità di Spider Man), l’industria del fumetto e i suoi gran maestri di cerimonie come Lee, veicolarono una nuova mitologia, in grado da un lato di sostituire quella antica, degli eroi omerici e nibelungici, dall’altro di sostenere “spiritualmente” il peso di un’industria che da sola fattura quanto il Pil del Belgio. Rimanendo sul versante del “sacro”, l’obettivo specifico di Lee e del multiverso supereroico divenne ben presto quello di contendere il campo della mitologia postmoderna all’altra grande (auto) narrazione pop dell’America contemporanea: Star Wars. Entrambe le narrazioni finirono per segnare profondamente l’immaginario collettivo, e in entrambe è possibile riconoscere, in trasparenza, un lato dell’ombra che l’America proietta sull’Occidente intero, inteso come macrocosmo culturale/ideologico più o meno omogeneo. Ma se nell’epica di Lucas prevale il senso più politico dell’egemonia americana (l’essere una repubblica con una chiara ascendenza imperiale) nel mondo della Marvel riconosciamo più immediatamente una sorta di tensione democratica. In questo caso infatti non ci troviamo davanti a un universo uniforme (la “galassia lontana lontana…”) ma a un pluriverso frastagliato, costellato di personaggi dai tratti spesso anarcoidi, che paiono rispecchiare l’anomia del mercato (l’altro grande totem americano), nella quale ogni prodotto lotta con gli altri per conformarsi ai desiderata del consumatore. Nasce forse da qui, al di là delle preferenze personali, la difficoltà nell’individuare un eroe che obiettivamente sovrasti gli altri: le singole eccedenze, proprio in quanto tali, sono in fondo poste ontologicamente – più o meno – sullo stesso piano. Il tentativo di fonderne le vicende personali (gli Avangers) testimonia il senso di una realtà plurale, incontenibile e impossibile da ridurre al singolo, anche nella sua eccedenza.
(Ri)partendo esattamente da qui, possiamo forse dire che tra i numerosi lasciti del vecchio Stan, tra i più preziosi c’è la consapevolezza del potere performante e produttivo dell’immaginazione. Mai come ora insomma, a quasi sessant’anni del primo volo dei Fantastici 4, la Fantascienza non è solo fantascienza…
A cura di Dante Valitutti