Provate a immaginare un solo anno, 365 giorni in cui Jefferson Airplane, Hendrix, Pink Floyd, Doors, Rolling Stones, Beatles, Velvet Underground, Cream e ancora altri, pubblicano alcuni dei loro dischi più riusciti. Immaginate un’industria discografica in pieno sviluppo, che in brevissimo tempo ha quasi quadruplicato i suoi guadagni e che ormai riesce a controllare e a rendere capillare la distribuzione delle sue produzioni su scala mondiale. Immaginate un campo sterminato di nuove possibilità tecniche, solo poco prima impensabili, messo a disposizione di tutto ciò.
Figo, no? Beh, ad avallare la veridicità del detto che spesso la realtà supera la fantasia, quell’anno c’è stato davvero. Salto sulla mia macchina del tempo e sgommo a tutta velocità via dall’Italia, perché mentre Claudio Villa e Iva Zanicchi si aggiudicano la vittoria di un Sanremo che sarà ricordato solo per la morte di Tenco, il 1967 sta lasciando un’impronta indelebile nella storia, non solo quella della musica.
Sono i 60’s, amici, il mondo è diviso in due blocchi contrapposti, c’è un Muro nel mezzo dell’Europa a sancirne la separazione. Sotto shock per il recente assassinio di Kennedy, gli Stati Uniti sono però ancora un paese profondamente razzista e impantanato in una guerra senza fine in Vietnam. Eppure da qui a poco lanceranno il primo uomo sulla luna.
La West Coast americana intanto è diventata il centro di un giovane movimento di controcultura, nato in questo periodo pregno di accadimenti e contraddizioni. Oggi, prima di partire, assicuratevi di avere dei fiori tra i capelli perché andiamo a San Francisco, la Mecca degli Hippies.
Nel quartiere di Haight Ashbury sono immediatamente circondato da un tripudio di jeans a zampa di elefante, camicioni e bandane variopinte, capelli lunghi, chitarre.
La filosofia dei figli dei fiori è semplice: pace, libertà, tolleranza, condivisione, amore, rifiuto del sistema. Mettete in uno shaker un po’ di Gesù Cristo, Francesco d’Assisi, Buddah, Gandhi, aggiungete Casanova e de Sade poi condite con della buona poesia decadentista. Agitate bene. Se non vi spiegate ancora tutti questi colori psichedelici, forse è perché vi mancano ingredienti importanti come l’erba o delle belle allucinazioni da acido lisergico. L’LSD è al centro di un dibattito scientifico. Alcuni studi, in particolare quelli del professor Timothy Leary di Harvard, ne stanno pubblicizzando le potenzialità di espansione coscienziale. Le sostanze psichedeliche promettono di raggiungere stati superiori di consapevolezza, simili all’estasi e alla grazia descritti dalle culture e religioni orientali che stanno diffondendosi in occidente. Qui nei ’60 gli allucinogeni si sono diffusi in maniera così impressionante da costringere il governo americano a dichiararli illegali.
La musica di questo periodo accoglie e si nutre di molte delle istanze del movimento hippie da un lato, dall’altro ne è uno dei principali catalizzatori. Rock stars come Janis Joplin, Jefferson Airplane e Grateful Dead hanno scelto proprio San Francisco come residenza.
Lungo tutto il 1967 la città è meta di un pellegrinaggio epocale. L’evento per cui anche io sono arrivato qui segna l’inizio di quella che per strada chiamano “Summer of Love”, l’estate dell’amore. È il 16 giugno e una carovana colorata è in viaggio verso la vicina Monterey. Al prezzo di un dollaro per biglietto assistiamo ad uno dei più memorabili festival musicali della storia. In tre giorni di concerti si esibiscono, tra molti altri, The Animals, Simon & Garfunkel, The Birds, Jefferson Airplane, Otis Redding, Grateful Dead, The Mamas & The Papas. Domenica 18 giugno l’apice: sotto insistenza di Paul McCartney gli organizzatori del festival hanno inserito nel cast un chitarrista appena tornato in patria da un viaggio in Inghilterra che ne fatto esplodere il mito. Brian Jones dei Rolling Stones sale sul palco e introduce la prima esibizione americana di Jimi Hendrix. Nove brani in scaletta, comprese alcune cover di Bob Dylan e B.B. King poi, sul finale di Wild Thing, Jimi stupra la sua Stratocaster, prima dandola alle fiamme poi facendola a pezzi.
Solo una settimana dopo, è il 25 giugno 1967, la BBC trasmette Our world, il primo programma televisivo in diretta planetaria. Le nazioni collegate sono ventisei e per la prima volta nella storia 400 milioni di spettatori da ogni angolo del mondo guardano la stessa trasmissione. Ci sono i Beatles a cantare “All you need is love”, un messaggio abbastanza inequivocabile.
Nello specchietto retrovisore della macchina del tempo l’immagine dei miei nuovi amici si va pian piano rimpicciolendo. L’ultimo gruppetto che scorgo è seduto in cerchio attorno a un paio di chitarre. Le note che a malapena distinguo sono quelle inconfondibili di San Francisco (Be sure to wear flowers in your hair), l’inno dell’estate dell’amore.
Voltato l’angolo vengo raggiunto da un pensiero. Se nel 2019 una manifestazione di pubblica protesta politica è (o dovrebbe ancora essere) un legittimo diritto; se un generale atteggiamento di tolleranza interculturale ed interreligioso è (o dovrebbe essere) norma; se una convivenza al di fuori del matrimonio non genera (o non dovrebbe generare) scandalo; se il tema della sessualità in ogni sua forma è sdoganato, una parte di merito va riconosciuta a questa generazione di fricchettoni rockettari e allucinati.
Sono seduti lì a cantare, convinti di poter cambiare il mondo. Non so quanto consapevolmente, ma ci stanno riuscendo.