Liliana Segre festeggia il 10 settembre 2020 un compleanno speciale, il traguardo dei 90 anni.
La sua storia è ben nota, diffusa com’è dalla sua compostezza e dalla sua addolorata testimonianza di qualcosa accaduto nel secolo scorso, ma ancora vivo nella drammaticità e nella portata di una tragedia mondiale di proporzioni disumane inenarrabili.
A soli 13 anni, poco più che una ragazzina, Liliana conosce cosa significa essere ebrea, fino ad allora non aveva mai subito tale etichettamento e per di più in senso dispregiativo, poiché il padre, da sempre laico, non le aveva infuso alcuna idea di orientamento religioso o di presunta appartenenza “etnica”.
Cominciano le discriminazioni, le esclusioni dalla vita sociale, gli atti di bullismo, come lei li definisce, l’esonero dalla scuola, il tentativo di fuga col padre alla frontiera svizzera che li respingerà.
Di qui l’inizio del calvario di una ragazzina, esile, senza una madre che non aveva mai conosciuto perché morta quando aveva solo un anno, con un padre, presente, affettuoso, premuroso, fondamentale nella sua crescita e nella sua infanzia.
Denunciati alle autorità, si ritrovano insieme al carcere di San Vittore arrestati per il solo motivo di essere nati, come lei riferisce nelle interviste, via via rese, in questi anni, e dopo 40 giorni, tra latrati di cani spietati e strilla terribilmente terrificanti in tedesco, si ritrova al tristemente conosciuto binario 21 della stazione di Milano, un’anticamera sotterranea per l’inferno, laddove stipati in piedi, accalcati l’uno all’altro, vengono condotti attraverso un viaggio dell’orrore senza aria, nè soste, nè cibo, nè bagni, nè acqua, nel campo di concentramento di Auschwitz.
E’ il 30 gennaio 1944.
E qui, in questa drammatica data, inizia, una volta giù dal vagone merci del treno, la discesa agli inferi, un paesaggio spettrale, freddo, avvolto nel gelo non solo climaticamente , ma umanamente, tra spintoni, selezioni, denudazioni, deturpazioni umane, mortificazioni esistenziali, annullamento senza speranza dell’essere persona con la timbratura di un numero da imparare velocissimamente in tedesco per evitare di morire uccisi all’atto brutale dell’appello, con l’immediata e violenta, brusca e definitiva separazione dal padre, che non vedrà mai più e che morirà nelle camere a gas il 27 aprile.
Liliana viene, invece, selezionata per la fabbrica di munizioni della Siemens, e lì, ogni giorno lotta tra la vita e la morte, la fame e la sete, fino al giorno della sua liberazione, con un’unica forza interiore, non essersi mai smarrita, non aver mai perso per sé la sua identità, con la convinzione di essere, comunque, una persona, come tale meritevole di dignità e rispetto, con la grinta di vivere e di superare, per poter raccontare, per poter dire cosa i suoi occhi vedevano, nonostante la bollatura di un numero, fatta apposta per umiliare, per dimenticare il tuo nome, per dimenticare di essere stata una bambina in un’altra vita poco recente, nonostante intorno a sé tutto parlava di altro, di morte, di soprusi, di strenui appelli notturni, di cani dalla ferocia mortale, di improvvise ingiustificabili esecuzioni, di odio, di indifferenza, di tombale silenzio, di resa alla morte, di un camino sempre fumante, dall’odore acre e disgustoso, in cui per un dito puntato veniva segnato definitivamente il tuo destino di morte.
Anche la storia della sua liberazione nasce da un profondo continuo racconto di dolore.
Da gennaio a maggio, la Segre affronta insieme ad altri migliaia di stremati deportati la marcia della morte verso la Germania, sotto la pressione e la vigilanza di pistole sempre attive di SS spietate e forti di un ideale di sterminio irragionevole e illogico – eppure fino alla fine pulsante – e della famelica compagnia di cani aizzati contro i più deboli per finirli nel tragitto, rivelatosi mortale per tanti, fino alla liberazione ad opera dei russi nel maggio 1945.
Nelle parole di Luciana Segre, non si avverte mai odio, mai risentimento, ma la consapevolezza di testimoniare, di rafforzare un ricordo terribile perché non si perda la memoria di ciò che è stato e che può riaccadere, di non ceder mai alla logica dell’odio perché era la stessa che guidava e fortificava il suo nemico, permettendogli di trovare una qualche giustificazione morale alla sua crudeltà scatenata irragionevolmente contro un inerte innocente essere umano, ritenuto, per il solo timbro impresso sul braccio, inferiore e non meritevole di vivere.
Memorabile e commovente la descrizione del momento della liberazione, quando il soldato tedesco si spogliò della sua divisa e lasciò a terra la pistola, incustodita per pochi infiniti secondi – come la stessa ricorda – e il suo sguardo finì per cadere proprio lì, su quella pistola che tanta morte e paura aveva disseminato, su una presumibile voglia di vendetta, di uccidere chi ha ingiustamente ucciso, di ritrovare un senso di pace dopo tanta follia e colpire con la stessa moneta chi aveva colpito, eliminare chi aveva tanto eliminato.
Eppure, lei racconta, ha avuto la forza di scegliere e non ha ceduto alla tentazione dell’odio, non si è abbandonata al pensiero, per quanto fugace, della vendetta: è stata più forte e non ha voluto fare della sua rabbia e disperazione uno strumento di morte perché mai e poi mai sarebbe divenuta come i suoi carnefici, mai e poi mai avrebbe potuto attentare ad una vita umana, che merita rispetto sempre, mai e poi mai lei avrebbe voluto convivere con l’idea di avere ucciso, e così lasciò a terra la pistola e assistette alla fuga disperata del suo carnefice, scegliendo, per sempre, quale sarebbe stato il cammino e il credo della sua vita.
Il suo messaggio che lei ripete continuamente ed è bello sentirlo e risentirlo, interiorizzarlo e comprenderlo: “si ha sempre la possibilità di scegliere da che parte stare” e lei ha scelto di stare dalla parte della pace, della tolleranza, della lotta all’odio e al razzismo, del contrasto ad ogni forma di discriminazione e violenza, promuovendo la costituzione in Parlamento, dopo la sua nomina nel 2018, da parte del Presidente della Repubblica, Mattarella, quale senatrice a vita, distintasi per il suo alto valore sociale, di una Commissione contro l’odio, che le costerà, malgrado la sua grande integrità morale e il suo esemplare valore di memoria storica, l’assegnazione di una scorta per aver ricevuto numerosi messaggi di odio e insulti, nonché minacce per la propria vita, proprio lei che della pace e del rispetto ne fa baluardo continuo nelle parole e nell’esempio del suo agire.
E’ successo ciò che lei teme e denuncia da sempre, ovvero che spesso dalla brutalità delle parole, di certi messaggi possano nascere le azioni e i fatti, che divengono in alcuni casi irrimediabili scelte del male, proprio com’ è accaduto con le leggi razziali e le deportazioni degli ebrei e dei fragili, dei diversi o dissidenti dell’epoca morti a milioni nei modi più terribili nei campi di concentramento nazisti.
La sua testimonianza ci è stata donata nell’arco degli ultimi trent’anni, specialmente con le sue continue visite nelle scuole di tutta Italia, quando ha deciso, ormai adulta, di parlare della sua esperienza, di condividerla con le nuove generazioni che vanno sensibilizzate ed educate al rispetto dei diritti delle persone e all’avversione a qualsiasi forma di odio, forte dell’amore del marito conosciuto molto giovane, deportato politico, che come lei aveva vissuto l’esperienza dei lager, e che le è sempre stato vicino in questa scelta di testimonianza vivente e imperitura della lotta al male senza senso e senza confine.
La sua salvezza deriva – secondo quanto narra – proprio dall’amore di suo marito che le ha dato una nuova linfa vitale, una nuova spinta a non mollare, una nuova forza nel raccontare e testimoniare, cosa che non le riusciva semplice, soprattutto nei primi momenti, quando al ritorno in patria dallo scempio dei lager nazisti, lei non riusciva a fidarsi di nessuno, sentiva la sua forza come persona ma non riusciva a riconoscerla negli altri, con la diffidenza di chi ha vissuto un incubo indescrivibile e soprattutto, con l’angoscia di dovere, repentinamente, rassegnarsi ad un silenzio mortificante, oppressivo, tenebroso, lacerato dalla sua straziante verità, perché negli anni successivi alla guerra nessuno voleva sentire le sue storie tristi, la sua deportazione, la mortificazione di una donna “senza vestiti, senza capelli, senza mestruazioni, senza mutande” (come lei stessa racconta), segretamente buttate giù a suon di gropponi per non infastidire ne’ tediare nessuno.
E poi, miracolosamente, ha ritrovato una nuova energia e la forza del suo racconto, la potenza dei suoi messaggi, le parole del suo dolore, la lucidità delle sue atroci descrizioni dell’infernale esperienza vissuta, risuonano e rimbombano, a volte infastidiscono (gli stupidi ed ignoranti), ma restano trincerate nella solidità di una persona onesta ed integra che ha reso pubblico il suo dolore, condividendolo soprattutto con le nuove generazioni, ed emozionando, nella sua amabile compostezza e raffinata gentilezza d’animo, con le sue scie di sentita sofferenza unite al senso di responsabilità di dover rendere la sua doverosa testimonianza.
La sua paura più grande? L’indifferenza – che lei ricorda durante il suo percorso ad Auschwitz, “racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perchè quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore”.
Le sue parole, in questi giorni così tristi per la morte del giovane di Colleferro, pestato a morte da un branco di vigliacchi bulli di provincia che senza se e senza ma si sono scatenati sul corpo esile dell’innocente coraggioso Willy, intervenuto in veste di paciere per sedare una rissa e difendere un amico ma che, purtroppo, ci ha rimesso la vita, riecheggiano più forti ancora perchè l’odio, il razzismo, la violenza, la ferocia umana sono ancora prepotentemente presenti nella vita di tutti i giorni.
La morte del sorridente Willy che lei definisce amaramente come un naufragio della nostra civiltà, è l’espressione di una deriva senza controllo, di un mondo che ha dimenticato il suo recente passato, perché il messaggio di odio, manifestato dai colpevoli ed espresso nelle parole disarmanti delle loro famiglie nei confronti della vittima, sminuita ad essere semplicemente un ragazzino extracomunitario, dimenticando che fosse un italiano a tutti gli effetti, quasi relegato ad un essere inferiore per la sua stessa origine, divenuta una colpa, un’onta, e, quindi, una giustificazione ingiustificabile della sua condanna a morte.
Quasi che il colore della sua pelle, la atipicità del suo nome e cognome, la provenienza da una famiglia straniera possano giustificare l’aberrazione di azioni di prepotenti e crudeli malfattori, e tali sono, approfittando della loro consapevole forza e mettendo in atto una vera e propria esecuzione, a luci spente!
Una sorta di deja vu, qualcosa di già visto e rivisto, di sentito e percepito, che vogliamo e dobbiamo rimuovere e combattere, con l’ostinazione di chi crede comunque nella forza di una umanità che vuole distinguersi, prendendo le distanze da tutte le degenerazioni dell’animo umano.
Ecco perché non si deve dimenticare, l’oblio è molto pericoloso, la memoria va sollecitata e ripetuta, mai abbandonata.
E si deve studiare, si deve leggere e capire, si deve educare alla cultura e al rispetto dell’altro, si deve valorizzare il significato di una scuola come luogo di accoglienza e di crescita umana esistenziale, di promozione delle skills, si suol dire, ovvero le abilità, non solo quelle importanti derivanti dalle competenze conoscitive specialistiche di discipline e materie curriculari, ma dei valori, dei principi fondamentali, di uno sviluppo interiore come persona, dell’indispensabile riconoscimento del valore dell’altro, di amore e rispetto per le diversità di ogni genere e specie, perché solo con la conoscenza si possono combattere le brutalità dei “non pensieri” ed evitare che idee malsane, oscure, minacciose, oltraggiose, violente e provocatorie, nonché folli, come folle era lo logica nazista, divengano fatti.
Primo Levi diceva: “capire è impossibile ma conoscere è necessario“.
E della necessità della conoscenza del male e della voglia inarrestabile di combatterlo e avversarlo, dai minimi soprusi del quotidiano agli omicidi efferati alle violenze sulle donne fino alla tragedia dei genocidi, tuttora presenti in alcune parti del mondo, Liliana Segre, pur nel suo travaglio di vita interiore, è divenuta esempio e riferimento, non cedendo mai alla disperazione, non crollando mai nella commiserazione, non crogiolandosi mai nella sua vissuta angoscia, riportando la sua testimonianza in maniera asciutta e diretta affinché risulti più penetrante nelle coscienze e più efficiente nei messaggi, divenendo baluardo di un modo di essere e di pensare all’umanità, comunque, con positività, nonostante abbia conosciuto l’abominio della morte e del terrore, distribuiti con atrocità e crudeltà, lanciando nell’ultimo incontro pubblico, tenutosi a febbraio prima del covid 19, in una scuola, al cospetto di centinaia di adolescenti, un inno alla vita come “una parola importantissima che non va mai dimenticata perchè non si torna mai indietro. Non bisogna mai perdere un minuto di questa straordinaria emozione che è la nostra vita“.