E’ da poco disponibile in fumetteria il quinto volume della serie di Chris Dingess e Matthew Roberts, pubblicata in italia da Saldapress. Il titolo della serie rimanda alla fede americana nella propria missione di espansione, e nel conseguente dovere di diffondere “libertà” e “democrazia.” E nella convinzione, ovviamente che tutto ciò sia inevitabile ed evidente: un Destino Manifesto appunto, espressione diffusa negli USA proprio in questa accezione. Coniata a metà del XIX secolo, essa sintetizzò una certa autorappresentazione americana in voga durante tutto l’800. La serie quindi è ambientata prima che la frase fosse coniata, durante gli anni della presidenza di Thomas Jefferson (1801 – 1804). E’ proprio lui infatti a volere la spedizione dei due protagonisti, i capitani Meriwether Lewis e William Clark.
A partire da questo incipit Dingess attinge a piene mani dalla storia americana. La spedizione del Corps of Discovery di Lewis e Clark fu in effetti la prima missione verso Ovest a scopo esplorativo e militare, resa celebre dal diario dei due capitani. La narrazione però prende presto una piega inaspettata: cosa sarebbe successo se quelle terre fossero state abitate da mostruose creature? E se in realtà la missione avesse anche avuto lo scopo di mettere in sicurezza il territorio da questo tipo di minacce? A partire da questa domanda la narrazione prende una direzione alternativa alla storia ufficiale, reinterpretando personaggi realmente esistiti (gli stessi Lewis e Clark, o la nativa Sacajawea), ed inserendoli in una natura ambivalente, la cui apparenza benevola nasconde pericoli mortali. Una terribile popolazione di Bisonti Minotauri, solo a titolo di esempio.
Ad affrontare l’ignoto una compagnia di soldati reietti e criminali mercenari, costretti ad imbarcarsi in una missione il cui vero scopo è per loro quasi sconosciuto. Il gruppo costituirà proprio il centro della narrazione, che si concentrerà sullo sviluppo dei personaggi nel contesto di scontri interni e minacce esterne. Toccherà a Lewis e soprattutto a Clark gestire gli animi di questo gruppo eterogeneo, indirizzandoli con non poche difficoltà verso l’obbiettivo: lo stanare e sterminare qualsiasi minaccia. Compreso quelle umane. Già dal primo volume emerge la centralità nel racconto della questione del genocidio dei nativi, e la critica della realtà sanguinaria della colonizzazione, dietro la retorica edificante dell’eroismo di frontiera.
Dingess marca fin da subito la differenza caratteriale e il ruolo dei due protagonisti. Se Clark è un capitano severo ma apprensivo nei confronti delle sue truppe, che ricambiano (quasi tutti) con la fiducia, Lewis rappresenta lo spirito ottimistico, esplorativo e assetato di conoscenza. Ligio al Destino Manifesto, spesso a discapito della ragione.
Nonostante le differenze però, i due sono legati dalla condivisione di un punto sostanziale. Nel secondo volume la brigata cade vittima dell’attacco di un mostruoso rospo, finendo per dividersi in due gruppi, uno sulla nave, presieduto da Lewis, l’altro sulla riva del fiume, capitanato da Clark con Scajawea. E’ l’occasione per Dingess di evidenziare ciò che accomuna i due personaggi: la fedeltà alla missione su qualsiasi altra cosa, e il ferreo divieto di qualsiasi insubordinatzione.
Il terzo e quarto ciclo pongono sotto la lente d’ingrandimento la discutibilità morale della missione: la violenza immotivata ai danni di creature pacifiche suggerisce quanto l’uomo sia a volte più mostruoso delle stranezze che affronta. La violenza raggiunge delle punte splatter nei disegni di Roberts, che sfrutta al massimo lo spazio offertogli dalla pagina per far risaltare l’azione concitata. Complice la narrazione di Dingess, che lascia fuori scena qualsiasi possibile momento di riflessione o tranquillità per i personaggi. Affascinante il contrasto offerto dalla rappresentazione dell’ambiente, restituito sempre in tonalità brillanti dal Color Artist Owen Gieni, con toni tutt’altro che dark, come ci si aspetterebbe da un fumetto Mistery/Horror. Il risultato, straniante e spettacolare è evidente soprattutto nelle splashpage.
Peccato per i personaggi secondari, poco più che comparse, scarsamente caratterizzati sia dai dialoghi che nella resa dei volti. Spesso semplicemente carne da macello, le loro battute incespicano in occasionali cadute di stile, con una scrittura che scivola talvolta nel banale. In generale però la narrazione funziona, appoggiandosi spesso a riusciti colpi di scena, e agli immancabili cliffhanger che bastano a tenere alta l’attenzione del lettore tra un episodio e il successivo. Insomma con la sua Skybound, Robert “The Walking Dead” Kirkman, è riuscito a sfornare un altro buon prodotto mainstream, assolutamente fresco e originale.