Marco Ottaiano è Professore Associato di Lingua e Traduzione Spagnola presso il Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati dell’Università di Napoli L’Orientale, dove insegna Analisi del Testo e Traduzione Letteraria e, sul triennio, Lingua e Traduzione Spagnola.
Nel febbraio 2012 fonda e dirige il Corso Specialistico in Traduzione Letteraria per l’Editoria presso l’Istituto Cervantes di Napoli oggi giunto alla XIII edizione.
Marco, sei chi volevi essere?
Beh, direi che quantomeno sono una persona che voleva trovarsi dov’è. Ho sempre desiderato collocarmi in una sorta di crocevia tra le arti narrative. Ho voluto formarmi come linguista, avrei potuto scegliere di studiare Lettere ma a suo tempo pensai che un corso di studi in lingue e letterature straniere mi avrebbe permesso l’accesso ad altri mondi letterari che conoscevo superficialmente. Oggi, dopo una lunga parentesi editoriale prima di approdare al mondo accademico, mi muovo tra l’insegnamento universitario, l’editoria, la promozione culturale, la traduzione, la scrittura e l’editing dei testi
Dopotutto il tuo ultimo libro Un modo di sentire la realtà sviluppa proprio alcuni di questi temi.
Sì, è essenzialmente un libro sulla traduzione letteraria dallo spagnolo ma fra le altre cose prova ad analizzare i rapporti culturali tra Spagna e Italia dagli inizi del secolo scorso ad oggi, passando per la lunga dittatura franchista. L’editoria italiana ha sviluppato col tempo una forma di indifferenza o forse di pregiudizio verso la narrativa spagnola, assimilandola con troppa superficialità al regime franchista. Eppure parliamo del secondo dopoguerra, di una editoria illuminata e attenta presso la quale lavorava gente come Calvino, Pavese, Vittorini. La Spagna in quegli anni ha prodotto una narrativa di gran valore che fu del tutto ignorata. Questa distanza, per fortuna, non avvenne con la grande poesia spagnola del Novecento: figure come quelle di Lorca (poeta vittima del franchismo), di Alberti (esule in Italia), di Cernuda, di Jiménez riuscirono ad attirare maggiormente gli interessi dell’editoria che si stava creando in Italia in quegli anni, nonostante la limitata circolazione libraria della scrittura poetica. Tornando ai narratori, invece, ti fornisco un dato interessante: quando hanno dato il premio Nobel a Camilo José Cela nel 1989, c’era un unico suo libro pubblicato in Italia (L’alveare, Einaudi)
Questa indifferenza è quindi attribuibile ai lunghi anni di dittatura che ha isolato la Spagna?
Le premesse per un proficuo dialogo c’erano, ma alla fine questo dialogo non c’è stato. La cosa più paradossale è che questa situazione ha avuto un effetto di ritorno anche su autori precedenti al franchismo. Il caso più eclatante è quello di Benito Pérez Galdós. In Italia quasi nessuno sa chi sia, eppure è di fatto il secondo più grande scrittore di Spagna dopo Miguel de Cervantes. È il grande narratore dell’Ottocento. Un dato curioso è che in vita (lui è morto negli anni Venti del Novecento), in Italia veniva pubblicato regolarmente. Quando c’è stato il franchismo, l’isolamento spagnolo e, per l’appunto, il pregiudizio a cui mi riferivo prima, ha determinato una distanza tale che al giorno d’oggi uno come Galdós in Italia è conosciuto solo grazie al recupero che ne ha fatto un regista d’avanguardia come Luis Buñuel, che basò due dei suoi migliori film su due romanzi dello scrittore. In questo mio libro, quindi, non parlo solo di traduzione, ma anche di circolazione, perché, come scriveva Susan Sontag “tradurre è anche, e soprattutto, selezionare ciò che merita di essere tradotto”. Riflettere su cosa sia arrivato, e soprattutto su cosa non sia arrivato dalle nostre parti, mi sembrava doveroso all’interno di un libro che intende riflettere sulla traduzione letteraria dallo spagnolo.
Nel febbraio 2012 fondi e poi dirigi, il Corso Specialistico in Traduzione Letteraria per l’Editoria presso l’Istituto Cervantes di Napoli.
Siamo alla XIII edizione. Credo sia l’unico corso che ci sia in Europa a occuparsi di traduzione letteraria per l’editoria esclusivamente per la lingua spagnola, lo teniamo al Cervantes di Napoli e in collaborazione con il mio Ateneo, l’Università L’Orientale appunto. Ogni anno raggiungiamo il numero massimo degli iscritti e siamo obbligati a tener fuori qualcuno. C’è tanto interesse sulla traduzione letteraria da parte dei giovani laureati in lingue e letterature straniere, in essa trovano una naturale collocazione del proprio percorso di studio
A questi corsi sei riuscito a portare fisicamente numerosi scrittori spagnoli.
Grazie al Cervantes siamo riusciti a portare alcuni fra i più grandi scrittori spagnoli degli ultimi anni, come Juan José Millás, Manuel Vilas, Cristina Morales, David Trueba, Elvira Navarro, Clara Sánchez, Marta Sanz, Juan Cruz, Ricardo Menendéz Salmón, Julio Llamazares, ed altri ancora. Sono scrittori che sono già stati tradotti in italiano. Li invitiamo per farci raccontare la loro esperienza sul loro essere tradotti all’estero e lasciamo che ci raccontino le loro esperienze non soltanto con il traduttore, ma anche con il lettore italiano.
C’è differenza tra un lettore di un paese rispetto a un altro?
A quanto ci dicono sì, l’interazione è diversa, e il fascino che sentono di esercitare su un pubblico straniero lo notano soprattutto quando vanno alle presentazioni.
Avete avuto anche altri ospiti a questi corsi, che non fossero solo scrittori?
Certo, essendo anche un corso di editoria abbiamo avuto grandi nomi del sistema editoriale italiano, come il direttore del gruppo Giunti/Bompiani, direttori di collana della Mondadori, il fondatore della casa editrice e/o, quello di Sur Edizioni e molti altri. E naturalmente, anche degli eccellenti traduttori dallo spagnolo come Bruno Arpaia e Pino Cacucci, noti fra l’altro per essere anche, a loro volta, degli apprezzati scrittori.
Quanto fedele deve essere una traduzione di un testo?
Non si può parlare di fedeltà, quella è ormai una categoria superata. È più corretto parlare di lealtà nei confronti del testo originale. Lealtà nei confronti dell’opera ma anche del lettore d’arrivo. La virtù di una traduzione è quella di farti credere che il testo sia stato scritto direttamente nella tua lingua. Talvolta poi, quando grandi scrittori si cimentano nell’arte del tradurre, si appropriano letteralmente dei testi. C’è un’espressione molta bella che si usa nella critica letteraria, si chiama vampirizzazione. Credo che in Italia il caso più noto e clamoroso sia quello di Ugo Foscolo che traduce The Sentimental Journey di Laurence Sterne, grande scrittore del Settecento inglese. Attraverso il filtro traduttivo di Foscolo si trasforma in uno scrittore romantico, cosa che in realtà Sterne non era affatto. Quella traduzione serve, allora, più per comprendere Foscolo che per capire la scrittura di Sterne.
Ci sono scrittori napoletani la cui scrittura ti lascia percepire il sostrato del dialetto. Scrittori che poi vengono tradotti in varie lingue. Sinceramente stento a credere che si possa preservare questa caratteristica nella traduzione.
Questo discorso che fai ha riguardato una delle pietre miliari della letteratura italiana del secondo Novecento. Mi riferisco a Ferito a morte di Raffaele La Capria. Quando scrive quel romanzo (siamo nel 1960), La Capria si propone una scrittura in italiano ma con una sintassi più orientata verso il napoletano. Pensa quindi a quanto il traduttore straniero di Ferito a morte possa aver percepito questa caratteristica. Ma dopotutto la traduzione è sempre una sconfitta. Eppure resta l’unico modo di poter leggere un testo scritto in una lingua a cui non hai accesso. Grazie alla traduzione posso leggere Dostoevskij. E dal momento che almeno per questa vita non imparerò il russo, sia benedetta la traduzione.
Il tuo sogno nel cassetto?
In realtà, dopo essermi sempre occupato della scrittura altrui, ora nel cassetto ho un libro. Un romanzo-documento per il quale sono in contatto con un paio di case editrici interessate. Vedremo…