Si è spento a Roma Beppe Lopez, giornalista e scrittore, autore di saggi e romanzi dedicati in particolar modo alla sua Puglia.
Aveva raccontato mezzo secolo d’Italia in tutti i suoi aspetti, dalla politica al costume, contribuendo costantemente al dibattito culturale del Paese.
Nato a Bari nel 1947, ma aveva vissuto nella capitale gran parte della sua vita. Da diverso tempo si era trasferito, con la moglie e con il figlio, a Montelibretti, piccolo paese nella provincia di Roma, Lopez si occupò a lungo di analisi del mercato e di progettazione editoriale, partecipando da cronista politico alla nascita di Repubblica, dove Eugenio Scalfari lo volle sin da subito. Fondò e diresse anche quotidiani locali e riviste, oltre al sito Informazione e Democrazia. Fu direttore, in particolare, del Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto, seguendo con attenzione i temi legati al Mezzogiorno. Seguì anche la fase costituente della prima legislatura del Consiglio regionale della Puglia, nel ruolo di capo dell’ufficio stampa.
Anche da saggista e narratore, Lopez sviluppò argomenti legati al Mezzogiorno e alla sua terra natia in particolare.
Esordì nella narrativa con il romanzo “Capatosta” nel 2000, che sdoganò il dialetto barese.
Tanti i messaggi di cordoglio alla famiglia, tra cui quello del sindaco di Bari, Antonio Decaro. “Una persona speciale che ha narrato la società italiana con spirito libero, autenticamente democratico e riformista – ha detto -. Ci lascia un professionista serio e competente, un giornalista di fine analisi politica e sociale, uno scrittore, un narratore, un intellettuale eclettico”.
Capatosta
Al suo apparire, nel settembre del 2000, il romanzo “Capatosta” di Beppe Lopez (Mondadori) si impose subito all’attenzione dei lettori e della critica per quattro peculiarità: perché scritto in un linguaggio mai prima di allora usato in letteratura, un idioletto ricavato dall’autore intrecciando italiano parlato e un materiale dialettale – quello pugliese – considerato “minore”; perché ambientato in un mondo mai prima descritto, un Sud né contadino né operaio, né rurale né cittadino, né magico né metropolitano, come sospeso in una fase astorica di inconsapevolezza collettiva e individuale; perché dava voce a una plebe estranea ed estraniata dalla storia e dalla stessa letteratura; perché incentrato su un personaggio forte, memorabile, in assoluto – come è stato detto – “uno dei ritratti femminili più belli della narrativa italiana”. Il testo di questa edizione – che vede la luce esattamente a dieci anni dalla prima – è frutto di un’attenta rilettura, di revisioni e di correzioni alle quali l’autore ha ritenuto necessario e doveroso sottoporre la stesura “sperimentale” del 2000, restituendoci quello che può già considerarsi un “classico” della narrativa meridionale a una più adeguata altezza di coerenza e accuratezza linguistica.
La scordanza
Niudd’ appartiene a una generazione di italiani che ha attraversato un’esperienza storicamente inedita e irripetibile: un primo passaggio epocale, attraverso il Sessantotto, da un Paese arcaico, innocente e autoritario, a un Paese moderno; e poi un secondo, definitivo passaggio, negli anni Ottanta, da un Paese che aveva perso l’innocenza a una società in profonda crisi morale, sociale e politica. Senza radici e senza memoria di sé. Per inseguire i suoi miti e le sue ambizioni, Niudd’ emigra da Bari a Roma per fare il giornalista politico, partecipando a quel clima in cui la liberazione viene vissuta in prima persona. Dopo un paio d’anni dalla nascita di sua figlia Saverin’, Niudd’ sfascia, come da copione, il suo matrimonio con Iagatedd’, la ragazza che per amore lo aveva seguito nella capitale. Doppiamente sconfitto e ferito, torna nella sua città, a sopravvivere proprio nella casa in cui era vissuto da ragazzo, in attesa e con la convinzione di poter rivedere sua figlia. Qui fa i conti col proprio passato e col proprio insostenibile, inammissibile presente: l’assenza di sua figlia, dell’unica ragione di vita che gli è rimasta su questa terra. Almeno così crede…
La bestia!
“Il piantone a guardia dello sprangato accesso alla Città s’impietrì, nel vedermi. Non si era accorto del mio silente avvicinamento alle mura”. Comincia così la storia, al di là del tempo e dello spazio, che ripropone l’eterno incontro/scontro con lo straniero. Le reazioni, gli avvenimenti e gli svelamenti determinati dall’arrivo della Bestia mettono in crisi profonda le basi di una società distopica e feroce, senza valori e senza memoria, svelando il passato rimosso e l’utopia possibile della comprensione reciproca, della tolleranza e della convivenza. Il racconto, sospeso tra saga familiare e romanzo allegorico, è uno scrigno di personaggi e di avventure, e la continua sorpresa con cui si rincorrono le vicende è amplificata dalla varietà dei registri linguistici e dall’attraversamento dei territori della filosofia e della letteratura.
Capibranco
Il racconto si snoda attraverso i difficili, contrastati rapporti tra due fratelli, di cui il primo, Michelino, pur avendo solo dieci anni in più, ha fatto da padre e poi da maestro al secondo, Vittorio. Entrambi avvocati, il minore ha acquisito dal primo anche la tempra di capobranco. Tra i due si sviluppa un conflitto lungo mezzo secolo, ambientato fra Bari e Roma, che coinvolge la moglie e il suocero romani di Vittorio da un canto, e la compagna e la figlia baresi di Michelino dall’altro. Queste ultime due figure femminili, in particolare, si riveleranno protagoniste, artefici e vittime di una storia segreta, ambigua e oscura – parallela a quella esplicita dei due “animali alfa” della famiglia – dall’andamento drammatico e, infine, tragico. Incentrato su una vigorosa, feroce descrizione psicologica dei personaggi, “Capibranco” illumina la storia e le vicende del Paese, così come si sono sviluppate, fra speranze e delusioni, vittorie e sconfitte generazionali, dal Sessantotto all’involuzione degli anni Ottanta, al caos attuale. Una società liquida che ha perso valori e riferimenti storici.