Una esposizione inedita che svela l’immaginario di Salvador Dalì, dalla costruzione del mito, fino all’immortalità. “Io Dalì”, è il titolo della mostra allestita nelle sale del PAN, Palazzo delle Arti di Napoli, fino al 10 giugno 2018. E’ un viaggio nelle visioni oniriche dell’artista spagnolo, un percorso biografico, caratterizzato dai disegni, dalle foto, dalle riviste e dai video, con brevi incursioni nella pittura. Artista eclettico, si cimenta in tutti i campi della creazione, sperimentando linguaggi artistici complessi ed eterogenei, fino alla costruzione del proprio personaggio. Seguendo l’ordine cronologico, la mostra inizia con una serie di autoritratti realizzati a partire dagli anni Venti del secolo scorso, celebre è l’ “Autoritratto con il collo di Raffaello”, dove è evidente l’emulazione dei grandi maestri della storia dell’arte. Negli anni Trenta, sviluppa le potenzialità della macchina fotografica collaborando con Erich Schaal, e parallelamente intraprende un nuovo percorso basato sul recupero della tradizione classica. Fondamentale sarà il sostegno di Gala, la sua amante, moglie e musa. La prima parte del percorso espositivo si chiude con il dipinto Autoritratto molle con pancetta fritta.
Nelle sale successive, l’attenzione dell’artista surrealista è rivolta alle performance e agli happening, ripresi dalle televisioni nazionali e internazionali. Durante il suo esilio americano, a causa della Seconda Guerra Mondiale, Dalì organizza una serie di performance all’ Hampton Manor, presso la sua residenza di Caresse Crosby, in Virginia. Esibizioni che continueranno anche nell’Europa postbellica, nella sua residenza di Portiligat, in Spagna, realizzando brevi filmati, in cui è interprete di attuazioni artistiche utilizzando oggetti rinvenuti nel giardino, nel suo studio e nella casa. Consapevole della potenza dei mezzi di comunicazione, abilmente se ne impadronisce, diventando uno strumento di autopromozione. Artista/personaggio, riconoscibile agli occhi del grande pubblico attraverso due singoli elementi, i baffi e gli occhi. Philippe Halsman lo riprenderà con i suoi celeberrimi baffi. Man Ray, invece, lo immortalerà per la copertina del magazine Time, del 1936, consegnandolo all’eternità. Da quel momento in poi, apparirà sulle prime pagine delle principali riviste. Visivamente impattante, è il collage in mostra delle testate nazionali ed internazionali con l’artista catalano protagonista, dal Der Spiegel, all’ Art News, da Le Figaro, all’ Esquire, dall’Harper’s Bazaar, a Photo Monde. Innumerevoli le sue partecipazioni televisive, in veste di ospite a un concorso di grande popolarità come What My Line?, trasmessa dall’emittente CBS nel 1957.
Proseguendo per il percorso espositivo, si giunge nelle sale incentrate sul rapporto fra Dalì con la religione e con la scienza. Già nella sua autobiografia, “Vita Segreta di Salvador Dali’”, l’artista affermava: “Il cielo non si trova né sopra, né sotto, né a destra, né a sinistra, ma esattamente nel centro del petto di chi ha fede”. Sicuramente, l’introduzione dei temi religiosi nella pittura è legato alla paura della morte, in mostra l’ “Assunta Canaveral” del 1956. Le sue opere superano il Surrealismo e la psicologia di Sigmund Freud, per entrare nella scienza. Un esempio sono i due dipinti: “La struttura del DNA”, eloquente è l’interesse per la fisica nucleare, per le teorie e lo sviluppo della meccanica quantistica di Werner Heisenberg. Nucleo centrale di questa sezione, sono i capolavori degli anni Sessanta e Settanta, opere che permettono di vedere la pittura in tre dimensioni. Attraverso un gioco di specchi, che emula i vecchi visori della fotografia stereoscopica, il pittore offre allo spettatore l’illusione della tridimensionalità dello spazio pittorico, di pregevole fattura le due opere “La scuola di Atene” e “L’incendio di Borgo”. Una cosa simile accade con l’olografia, che l’artista identifica come la chiave della persistenza e dell’immortalità della memoria. Per creare i suoi ologrammi, si avvale della collaborazione del premio Nobel per la Fisica, Dennis Gabor.
L’ultima parte della mostra si conclude con la sezione dedicata al Teatro-Museo di Dalì, considerato un autoritratto che muta in ragione dell’opera che si osserva, sia esso dipinto, disegno, incisione o scultura. Il museo è un autoritratto, gigantesco e multiplo, creato, attingendo alle realtà vere e a quelle fittizie. Di conseguenza, è lo stesso artista ad “indicarci la via” e a guidarci lungo un percorso eterogeneo. Il Teatro-Museo contribuisce a rendere immortale l’artista e il personaggio, come Castore e Polluce, come i gemelli figli di Leida, divini e anche umani.