Sarebbe un errore pensare che ciò che raccontiamo oggi sia una storia di sola musica. E’ tuttavia fuori di dubbio che la produzione musicale napoletana, dal dopoguerra agli anni ’80, può essere utilizzata come lente di ingrandimento per leggere i profondi mutamenti (e non sono pochi) vissuti dalla nostra città in quel periodo.
Ma in un viaggio ideale che va da “Tu vuo’ fa’ l’americano” a “O’ Scarrafone”, dai carretti alla tangenziale, dalla sceneggiata a “Ricomincio da tre”, ciò che è passato alla storia come Neapolitan Power non può essere classificato semplicemente come la musica prodotta da un pugno di musicisti talentuosi. Il potere napoletano è piuttosto la forza, la vitalità, la fantasia, il coraggio e la dignità con cui Napoli ha saputo rispondere allo scatafascio di una guerra, alla trasformazione urbanistica e ai disagi delle periferie, alla disoccupazione, all’emigrazione, alle ingiustizie sociali, al pregiudizio.
Si, il pregiudizio, perchè per togliersi dal viso la maschera di Pulcinella, mettere da parte il mandolino e iniziare a mangiare gli spaghetti con le posate, Napoli ha dovuto, e lo ha fatto in maniera eccellente, produrre cultura. Non che non ne avessimo già abbastanza, ma la tradizione andava riletta e aggiornata.
Il Neapolitan Power è stato questo. Una bottega, una fucina di artisti e di idee che ha traghettato la città e il suo bagaglio millenario di storia dentro l’epoca contemporanea.
Per parlare più nello specifico di ciò che ci interessa, cioè la musica, l’elemento principe di questo movimento è un’accoglienza sincera che diventa contaminazione. E’ vero, il blues, il rock, il jazz e il funk qui li hanno portati i soldati anglo/afroamericani. Napoli però non è mai stata colonia musicale. Tanto meno una presuntuosa rocca trincerata dietro la sua tradizione antica. Anzi, dall’incontro degli elementi distintivi della cultura musicale partenopea (su tutti quello melodico) con le suggestioni ritmiche e armoniche del funk e del jazz, o con la malinconia del blues, nasce un nuovo sound, un mondo particolare, che per una sorta di “ius soli” musicale è tutto napoletano.
Tra i primi a battere queste strade ci sono (manco a dirlo) due napoletanissimi figli della guerra. Mario e Gaetano, quest’ultimo da tutti è chiamato James, come il padre americano che non ha mai conosciuto. Il papà di Mario è un pellerossa, quello di James è nero. Gli Showmen di Musella e Senese cantano e suonano in un modo nuovo, scrivono canzoni d’amore, ma sembrano stranieri, vogliono suonare il rhythm and blues. Poi James scopre che il suo modo di parlare (un napoletano sfrenato) suona benissimo sul blues, sul jazz, sul rock. E già, perchè il napoletano è pieno delle parole tronche di cui l’italiano scarseggia. Esperienze come quelle degli Showmen e dei Napoli Centrale importano a Napoli generi nuovi e li rimodellano attraverso una napoletanizzazione sistematica. Una straordinaria generazione nata a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 si ritrova a lavorare gomito a gomito in una ideale bottega che sforna alcuni dei musicisti più apprezzati in Italia, solo per ricordarne qualcuno, Rosario Jermano, Rino Zurzolo, Tullio de Piscopo, Enzo Avitabile, Tony Esposito, i fratelli Sorrenti, i fratelli Bennato.
E’ in questo contesto di sperimentazione e rinnovamento che muove i suoi primi passi Pino Daniele, la cui produzione, almeno fino a tutti gli anni ’80, può essere considerata il fiore all’occhiello musicale di questo movimento, che parallelamente sta rinnovando la tradizione teatrale (si pensi solo alla Smorfia di Troisi e a tutta la sua filmografia) e artistica in generale. Napoli diventa negli anni ’80 una delle principali porte d’accesso della Pop Art in Italia grazie all’infatuazione di Andy Warhol per la città.
E’ difficile spiegare in poche righe cosa sia successo in quel periodo. A me piace pensare (e sono convinto che sia così) che si sia trattato di un’affermazione di identità. Non prepotente, non esclusiva, al contrario totalmente inclusiva rispetto al nuovo, al diverso e alle ricchezze e possibilità che questi portano con se.
Il Neapolitan Power, dalla musica al teatro, dall’arte alla letteratura, fino ai grattacieli e agli scudetti di Maradona, racconta una città difficile, una “carta sporca”, che trova il coraggio di guardarsi dentro, fare autocritica e gettare lo sguardo oltre se stessa. Chapeau ai signori che hanno fatto questo, liberandoci dagli antichi luoghi comuni e regalando all’Italia una lezione di integrazione e una pagina importante di cultura.