Si trovano soprattutto voci di nuove scrittrici tra gli esordi di narrativa italiana e straniera del 2023. E la famiglia con le sue luci e ombre, i suoi segreti ed eredità è, insieme all’amore, l’argomento dominante.
Titoli interessanti, tutti da segnare per scoprire nuovi talenti letterari.
Come uccidere la tua famiglia di Bella Mackie
Bella Mackie ha scritto un fenomeno editoriale senza precedenti: da più di un anno in vetta alle classifiche inglesi e venduto in tutto il mondo, è adorato all’unanimità da lettori, librai e critica.
Mi chiamo Grace Bernard e, con ogni probabilità, il mio nome non vi dice proprio niente. Nessuno mi conosce perché languisco dietro le sbarre per l’unico crimine che non ho commesso. Eppure, se devo dire la verità nient’altro che la verità, ho ucciso diverse persone, alcune in modo brutale, altre con maggior delicatezza – vale la pena specificarlo, perché fa un’enorme differenza agli occhi giudicanti della gente. Quando ripenso a ciò che ho fatto, avverto persino una punta di tristezza, giusto una fitta trascurabile, al pensiero che nessuno verrà mai a conoscenza del mio strabiliante piano. Un piano che ho architettato per anni, sacrificando tutto in nome della vendetta. Ora vi chiederete: perché ostinarsi a vuotare il sacco se la si può passare liscia? Avete ragione, la libertà non ha prezzo. Però non riesco a smettere di immaginare l’istante in cui, dopo la mia morte, qualcuno aprirà una cassaforte e troverà la mia confessione. Esatto, proprio questa che sto scrivendo nei pochi giorni che mi separano dalla libertà. Scommetto che quel qualcuno non potrà fare a meno di restare a bocca aperta e pensare a me con ammirazione. Perché chi sarà mai in grado di capire come una persona, a soli ventotto anni, possa aver ucciso a sangue freddo sei membri della sua famiglia per poi andare avanti come se niente fosse, senza neppure l’ombra di un rimpianto? Tagliente, onesto, graffiante, divertentissimo. Come uccidere la tua famiglia è tutto quello che non ti aspetti: una potente commedia nera, una satira bruciante sulle famiglie disfunzionali e sui privilegi di classe, nonché una critica feroce all’ossessione dei media per l’universo del crimine e alle falle di un sistema che non ammette deviazioni dalla norma.
La maledizione della famiglia Flores di Angélica Lopes
La casa della famiglia Flores ha le finestre azzurre, un giardino curato, ed è un luogo speciale: ogni giorno un piccolo gruppo di donne si riunisce al suo interno per ricamare tovaglie, centrotavola, fazzoletti e veli. È il 1918 e Bom Retiro, una tranquilla cittadina nella regione del Pernambuco, nel Nordest del Brasile, vive gli anni di una dittatura violenta, che minaccia e reprime soprattutto la voce delle donne. Ma a casa Flores è diverso: un’oscura maledizione, che vede morire in giovane età tutti gli uomini della famiglia, ha trasformato questo posto in una roccaforte al femminile, dove Vitorina, che ha imparato l’arte segreta del ricamo fino ad allora appannaggio delle suore in convento, la trasmette alle altre. Tra queste, Zia Firmina, la più anziana, fervente cattolica e custode del segreto che grava sulla famiglia; Eugênia, promessa in sposa contro il suo volere a un uomo violento e più vecchio di lei; e Inês, che utilizza un codice fatto di punti ricamati inventato da Eugênia per aiutare quest’ultima a liberarsi di lui. Un vero e proprio linguaggio segreto attraverso cui progettare la fuga. Una storia che arriva, un secolo dopo, nella Rio de Janeiro di oggi, consegnata sotto forma di un prezioso merletto ad Alice, pronipote di una delle donne Flores: una ragazza dai capelli blu, ribelle, che insieme alla compagna Sofia ricostruirà le vicende della sua famiglia. Sarà riuscita Eugênia a sfuggire al proprio destino? E qual è il segreto nascosto dietro la misteriosa maledizione? Una toccante storia di solidarietà al femminile, narrata con l’eleganza di un’arte antica e capace di trasmettere il valore del coraggio e della libertà.
Un pomeriggio d’inverno, freddo da spezzare le ossa, Bina si ritrova sola. Ha ottantatré anni e aspetta suo nipote al parco del Cinghio, un quartiere da cui è meglio tenersi alla larga ai margini di una cittadina perbene. Marta, che di anni ne ha venticinque, e che al Cinghio è cresciuta imparando che il mondo è storto e non lo si può aggiustare, la osserva dalla finestra: la vede farsi rigida su una panchina sfondata, il naso gocciolante, un berretto rosa calato sugli occhi spauriti. Decide di offrirle un tetto per la notte. Poi per la notte dopo e per quella dopo ancora. Marta finisce così per prendersi cura di Bina, e intorno a lei, a proteggere quaranta chili di ossa e grinze, si stringono gli abitanti dell’intera palazzina. Poche strade più in là, Fabio viene preso a pugni: ha sgarrato con la persona sbagliata ed è nei guai, grossi guai. Fabio è il nipote di Bina e, mentre Marta prepara il letto per la nonna, lui bussa alla porta di Genny, un’ex prostituta in grado di raccogliere i cocci altrui senza fare domande. Bina e Fabio vivono giorni sospesi, in un luogo duro e sconosciuto, nell’attesa che qualcosa accada. Qualcosa accadrà. E il destino rimescolerà il mazzo, distribuendo ai giocatori nuove carte. Quei giorni freddi si faranno via via più caldi dentro le palazzine di appartamenti rattoppati: tra coperte rimboccate, il rumore del caffè che sale nella moka, il profumo del sugo e una carezza sulla fronte, Marta, Bina, Fabio e Genny scopriranno che dietro ogni abbandono, nascosti sotto ogni solitudine, sopravvivono sempre la forza di amare e il bisogno di prendersi cura l’uno dell’altro.
Lui mi ama di Thora Hjörleifsdóttir
Lilja ha vent’anni ed è innamorata. Giovane studentessa universitaria, si è subito invaghita di un ragazzo più grande, intelligente e bellissimo, che cita Derrida, legge il latino e cucina pasti vegetariani perfettamente equilibrati. Ma che è anche un traditore seriale e un narcisista. Prima ancora di rendersene conto, Lilja si trasferisce nell’angusto appartamento dove lui vive con uno strano coinquilino, circondata da asciugamani sporchi e Diet Coke sgasate. Mentre la nuova intimità di condividere una doccia e un letto alimenta sempre di più il suo desiderio di compiacere il partner, a mano a mano che la loro relazione si sviluppa le manipolazioni silenziose e pervasive di lui diventano sempre più numerose, gli atti di abuso quasi impercettibili continuano ad aumentare e iniziano a farla crollare. Lilja farebbe di tutto per tenerselo stretto. Così accetta i suoi inganni, razionalizza il suo comportamento tossico e gli permette di superare ogni limite. Nel suo disperato tentativo di essere l’amante perfetta, si ritrova incapace di liberarsi da questo circolo vizioso. Fino a essere costretta a una scelta inaspettata: un amore totalizzante o la possibilità di rimpadronirsi della sua vita.
Forse le storie non andrebbero mai raccontate, si trova a pensare Sara, psicoterapeuta trentenne, seduta nello studio di un giovane avvocato. Raccontarle significa farle esistere, e una volta che esistono le storie esigono : un seguito, una conseguenza, una redenzione. Eppure Sara è qui, coi capelli raccolti e la gonna elegante, proprio per raccontare all’avvocato una storia, quella della sua paziente Nadia. Nadia aveva quattordici anni quando la sua storia si è inceppata. Nascondeva le forme sotto felpe da basket, era brava a scuola e cantava nel coro della chiesa. Un giorno un quarantenne sposato, amico del padre, ha cominciato a corteggiarla. È stato un avvicinamento lento, fatto di movimenti minuscoli, sguardi. Lei all’inizio non ha percepito il pericolo, era curiosa, provocare turbamento in un uomo l’ha fatta sentire bella, vista . “Vorrei poter dire che mi ha colta di sorpresa, mi ha sopraffatta con la forza, mi ha picchiata” scrive. Invece sulla sua macchina la prima volta ci è salita da sola. Quando ha capito, era troppo tardi. Ci sono voluti mesi, poi, prima che trovasse la forza di sottrarsi. E ci è voluto molto più tempo prima che fosse davvero pronta per denunciare. Ecco perché la sua psicoterapeuta oggi è qui, in uno studio prestigioso nel centro di Milano: vuole un parere legale. È troppo tardi per cercare giustizia? Forse, pensa mentre il colloquio con l’avvocato fa affiorare un’altra verità, raccontare questa storia è già una forma di riparazione. La gioia avvenire è un esordio fulminante – duro, scomposto, a tratti impudico – che tiene insieme la densità e il suono della scrittura poetica e la finezza analitica della prosa. È una riflessione coraggiosa sul consenso, sulla fallibilità della giustizia umana e sulla persistenza delle ferite, ma, come ha scritto la giuria del Premio Calvino, è soprattutto “un romanzo di grande intensità emotiva, reso particolarmente efficace dalla lingua scabra e spigolosa con cui è costruito”. Stella Poli è nata a Piacenza nel 1990. È assegnista di ricerca in linguistica italiana presso l’Università di Pavia e insegna poesia contemporanea nel master editoriale MasterBook. È nella redazione di “Trasparenze” e “La Balena Bianca”. Suoi racconti sono usciti su numerose riviste, fra cui “inutile”, “‘tina”, “l’inquieto”, “narrandom”, “Nuova Tèchne”. La gioia avvenire , finalista alla XXXIV edizione del Premio Calvino, è il suo romanzo d’esordio.
Anni cinquanta. Teresa lavora come portinaia in un palazzo del centro di Padova. Dimessa e apparentemente insignificante, serba in realtà un segreto che porta con sé da quando aveva sedici anni. Nel dicembre del 1943, Teresa viene travolta da una serie di eventi che condizioneranno per sempre la sua vita. Di ritorno da un incontro sotto i portici di piazza delle Erbe con il garzone di cui è innamorata, ha ancora sulle labbra il sapore del suo primo bacio quando la famiglia ebrea per cui lavora nel ghetto, e da cui è stata istruita ed educata alla lettura, finisce in una retata. Un attimo prima di essere portata via dai soldati, la padrona le affida il suo neonato: Amos, due enormi occhi scuri e una voglia di fragola sulla nuca. Qualcuno però fa la spia, Teresa viene separata a forza dal bambino e per punizione viene rinchiusa in un manicomio. Anni dopo, seduta davanti alla vecchia stufa in ghisa della sua guardiola, pensa ancora a quel bambino e all’uomo che potrebbe essere diventato. C’è un impegno da onorare, una verità da consegnare prima che il portoncino di vicolo Sant’Andrea 7 si spalanchi per l’ultima volta e lei sia finalmente libera di ricominciare.
Menodramma di Maria Castellitto
Londra è una miniera di notte e un cantiere di giorno. Tra i suoi ponteggi e i suoi tunnel, Duna si è laureata in Filosofia nell’università più illuminata d’Inghilterra, e ora legge sceneggiature o quasi sceneggiature: quasi legge, anzi, più che altro immagina. Nonostante sia molto giovane, Duna ha già una vita di prima. Tra la vita di adesso, seduta a una scrivania davanti a un collega più grande che le si rivolge in modo gentile e che di certo la ama, e la vita di prima a Roma, seduta in un’aula scolastica o su un motorino in compagnia di Veronica, c’è un proiettile la cui vittima non è ancora decisa. Duna voleva scrivere un romanzo, ma ha smesso. Il protagonista era un ragazzo vestito da pagliaccio armato di mannaia. Forse non era uno sconosciuto. Duna gioca con Alexander, un amico geniale e lunatico ricoverato in una clinica psichiatrica: si parlano attraverso gli slogan pubblicitari. E cammina, Duna, per Londra, cammina trascinando la sua bicicletta. Il suo disincanto è devoto all’idea di dimostrare che gli altri esistano e non ci abbandonino. Duna incontra un giovane e famoso cantante, Clement. Si innamorano, solo che il lieto fine, nelle favole come nella vita, dipende sempre da dove smetti di raccontare la storia, e qui non si sono fermati in tempo. Se non fosse che, tornando da una festa alla quale era andata con lui, Duna, attraversando il ponte dei Frati Neri, nella notte in cui più intensamente di altre medita il suicidio, incontra un uomo. E l’uomo ha una pistola. Tra la vita di adesso, a Londra, senza più un amore, e la vita di poi, ancora a Londra (ma chissà per quanto), ci sono quel proiettile e la sua vittima. E non c’è nulla nel mondo che possa farci cambiare: non c’è nulla negli altri, ci siamo noi.