E’ la notte tra sabato 5 e domenica 6 settembre quando una cittadina della provincia romana, Colleferro, diviene teatro di uno spettacolo macabro, violento e crudele in cui il 21enne Willy Monteiro Duarte, vittima di un triste destino, viene ucciso con una brutalità inaudita da un branco di quattro coetanei armati solo di cattiveria e spietata surreale crudeltà.
La scena sembra far rivivere sceneggiature gomorriane, con tanto di tatuaggi e personaggi dall’aspetto inquietante e discutibile, presuntuosi bulli, in preda ad un fanatismo spocchioso, forti della loro prepotenza e della sudditanza che genera per paura, omertà, silenzio, timore, voglia di starne alla larga, che vivono una dimensione di vita, ispirata a canoni delinquenziali da “scarface”, chiusi in un concetto di famiglia arcaico, come clan da difendere e da proteggere, uno di loro lo ha persino tatuato sul braccio.
La dinamica è tutta da definire.
Parrebbe che all’origine del pestaggio ci sia stato un like, scomodo e non gradito, postato ad un profilo instagram di una ragazza appartenente al gruppo degli “uomini di ferro” che abbia fatto scatenare la folle rabbia.
Come reazione, hanno allora deciso di dare una lezione al malcapitato e hanno così cominciato con un’azione di vendetta e di rivalsa del loro onore, dell’onore della loro fazione di appartenenza, a colpire a calci e pugni Federico, un amico di scuola di Willy, il quale, uscito dal locale intorno alle due di notte in compagnia di altri amici, assistendo alla violenza, non è rimasto a guardare ma è intervenuto prontamente e senza esitazione in difesa del vecchio amico, ponendosi tra lui e i carnefici, avendo, purtroppo, la peggio, trovandosi, suo malgrado, “al momento sbagliato nel posto sbagliato”, come ha dichiarato un addolorato padre di Federico alla stampa.
Lascia sbigottiti e sconcertati la vicenda, il suo sviluppo, il suo precipitare, il fatto di essere vigliaccamente in quattro contro uno: uno schieramento disumano di fronte ad un indifeso Willy, ancor più quando, stremato, chiedeva di fermarsi e implorava aiuto e pietà, ma che è stato massacrato di botte fino ad esalare esanime il suo ultimo respiro, troppo tardi per salvarsi nella corsa in ambulanza.
I quattro pestatori professionisti, frequentatori assidui di arti marziali di nuova generazione, praticavano la cd. Mixed Martial Arts (MMA), uno sport a sé, forse meno nobile e meno gentile che mischia elementi di discipline differenti: lotta, wrestling, boxe tailandese, kali filippino, ju jitsu brasiliano e ju jitsu giapponese con categorie di peso, regole e, a volte, uso dei guantini e delle protezioni per i piedi, calci e pugni ammessi senza limiti.
Ben attrezzati di muscoli, abituati alle risse notturne e abili alla violenza, hanno cominciato a colpire senza sosta Willy, mentre gli amici riuscivano a darsi alla fuga e qualcuno è riuscito, persino, nella furia del momento, a scattare alcune foto del linciaggio, avvenuto nel parcheggio che si trova dietro un locale di Colleferro, frequentato dai ragazzi quella sera, che, improvvisamente, è divenuto buio (a dire del custode, deliberatamente), impedendo così alle telecamere di sorveglianza di riprendere tutte le scene di questa triste storia.
Willy viene colpito numerose volte, ma probabilmente i colpi mortali sono stati due nello specifico, assestati con abilità, ferocia e consapevolezza di far male, descritti dettagliatamente dai testimoni presenti e che da un primo quadro clinico sembrano corrispondere con la descrizione dei fatti: un calcio allo stomaco che ne avrebbe provocato l’emorragia e, subito dopo, un pugno alla testa che ne avrebbe determinato la morte, non immediata, perché soccorso da un carabiniere in congedo, residente in zona, Willy negli ultimi istanti prima della corsa in ospedale era vivo e semicosciente.
Resta l’amarezza e lo stupore di un delitto senza movente, gratuito e aberrante nelle proporzioni della “tenzone” e della vacuità e futilità di motivi apparentemente quasi inesistenti all’origine della diatriba.
Eppure si legge nelle dichiarazioni dei presenti, che la morte di Willy, ragazzino appartenente ad una famiglia capoverdiana, aiuto cuoco in un hotel della zona, con un sogno nel cassetto di far parte nel futuro – ormai infranto irrimediabilmente – della rosa della sua amata Roma (che gli ha reso omaggio con una dedica), è stata sminuita e giustificata dai colpevoli e dalle sue famiglie semplicemente “come la morte di un ragazzino extracomunitario”, quasi a volerlo marchiare e colpevolizzare per questo, a volergli conferire, per questa sua sola appartenenza, minore valore come persona e a ridurre l’entità e la gravità dell’omicidio – preterintenzionale o volontario poi si vedrà dalle risultanze dei magistrati a lavoro – in funzione della minore importanza e dignità umana di chi appartiene a etnia, colore, provenienza geografica diversi.
Siamo all’aberrazione del concetto di persona umana e del rispetto della sua vita.
Non c’è un senso a tutto questo.
Non ci sono risposte e domande plausibili, restano infiniti interrogativi sull’ingiustificatezza di una morte che non doveva avvenire, irragionevolezza per il dolore insopportabile e immeritato di innocenti genitori, avvilimento e sconforto per non riuscire a frenare tali brutalità, rabbia per la perdita di un giovane, di animo tranquillo ed equilibrato, allegro e gioioso della vita, così nelle parole di chi lo conosceva, rabbia che si sta traducendo, nelle ultime ore, nel moltiplicarsi di insulti, invettive, offese e minacce sui social degli autori del delitto (e anche dei componenti delle loro famiglie o delle loro fidanzate) da parte di chi vuole strenuamente difendere Willy, ma che cade nella stessa trappola, quella della violenza senza fine, non giustificabile mai, nemmeno a difesa di un innocente (ahimè!).
I responsabili del pestaggio sono quattro giovani già conosciuti alle forze dell’ordine, appartenenti all’estrema destra, ma soprattutto ben conosciuti nella zona, per i loro soprusi, abusi di potere, violenze disseminate con facilità grazie alle loro abilità da pugili esperti, spietati e senza alcuna forma di umanità.
Gli stessi, dopo l’uccisione di Willy, sono stati rinvenuti dai carabinieri a bere birra allegramente e disinteressatamente al bar di famiglia, noncuranti della tragedia provocata e della colpa che porteranno dentro, con messaggi inseriti sui loro social inneggianti violenza e foto postate con in bella vista muscoli e tatuaggi, nonchè allenamenti intensivi in palestra, finalizzati alla violenza quasi come divertimento.
Eppure, la mattina, intorno alle 6, dopo aver lasciato a terra un inerme Willy, uno di loro ha pubblicato un video ironico con tanto di emoticon di accompagnamento che ride a crepapelle con la disinvoltura di chi non ha nulla da temere e nulla da considerare, nella serenità di chi viveva normalmente le sue serate così tra pugni e calci, come su un set di un film, ma senza esser uno stuntman, senza portare dentro di sé i prodromi di un’esperienza tanto terribile, senza avere un minimo di coscienza o titubanza su quanto di lì a poco accaduto ovvero lasciarsi sfiorare minimamente dall’idea di soccorrere il povero Willy, nella normalità disarmante di una spietatezza senza senso.
Ora in carcere voci si rincorrono che, al di là della solidarietà tra i due fratelli che continuano a ribadire che no, non avrebbero voluto uccidere Willy, ma solo dargli una lezione a suon di botte, (a mò di esempio, così la prossima volta, chi come lui avrebbe avuto l’ardire di intervenire, se ne sarebbe stato buono al posto suo), ci sia già uno scaricabarile di responsabilità tra i 4 amici “di violenza”, perché il danno è inestimabile, questa volta l’hanno fatta grossa e, difficilmente, potranno darsela a gambe e cavarsela con qualche innocuo graffio, continuando a giocare col telefonino e a mostrarsi tronfi dei loro inutili muscoli e dei loro messaggi violenti.
Questa volta il gioco di gomorroide è costato caro, e non solo alla vita del povero innocente Willy, ma anche alla loro, ingabbiati come sono, non in un ring in cerca di vittoria, premi, medaglie, cinture di merito con passaggi di categoria sempre più forti e acclamazione davanti ad un pubblico astante, ma in una cella a rispondere alla loro giovanissima età di una delle macchie peggiori per un essere umano: la distruzione della vita di un giovanissimo piccolo eroe dei nostri tempi, che si è erto contro l’ingiustizia e la supremazia illogica di chi si sente superiore solo perché più prepotente e più forte.