L’ultimo film di Clint Eastwood segue la tematica che ha già affrontato negli ultimi due sue film (American Sniper, 2014; Sully, 2016), continuando parallelamente la sua ricerca per il realismo più nudo: l’eroismo dell’uomo comune, fitrato dalle lenti della retorica patriottica americana. E lo fa affrontando un avvenimento recente, che è anche un argomento molto delicato per gli americani, seppur in questo caso li riguardasse solo alla lontana: l’attentato terroristico del 2015 sul treno Amsterdam-Parigi sventato da tre americani, un francese e un inglese.
Il film ripercorre la vita dei tre eroi americani. Partendo dall’infanzia in una rigida scuola cattolica, dove giocare a fare la guerra era la cosa che li legava, fino all’arruolamento, le missioni, il viaggio con lo zaino in spalla per l’Europa, l’attentato e il conferimento da parte di Sarkozy della Legione d’Onore, la più alta onorificenza militare e civile francese (ricevuta anche dal regista stesso nel 2007 e 2009). Eastwood preferisce focalizzare l’attenzione su uno dei tre, Spencer Stone, quello che ha avuto più difficoltà e al contempo più volontà e ambizione tra i tre.
La sua tensione al realismo con questo film raggiunge il climax: rinunciare ad attori professionisti, ma di far recitare gli stessi protagonisti dell’accaduto è stata una scelta coraggiosa, ma appagante; il viaggio per l’Europa è rappresentato in ogni dettaglio, dagli spostamenti in treni, le nottate a bere ed i pernottamenti in ostelli; la corta scena della missione di Alek Skarlatos in Afghanistan è molto interessante e critica della stessa presenza delle truppe statunitensi; le scene delle onorificenze sono le originali riprese dalle telecamere, rompendo così la divisione documentario-film. Le scene dell’infanzia però sono accompagnati da dialoghi decisamente irrealistici per dei bambini delle elementari, ma bisogna determinare se si tratta di un errore di traduzione o sceneggiatura.
Il messaggio e la retorica del film sembrano proseguire su una parabola già individuabile negli altri film del regista: lo abbiamo già visto inquadrare il suo paese sfiancato e stanco, internamente con Gran Torino e all’estero con American Sniper, non senza un velo di ironia quasi impercettibile (tra i tanti poster appesi in camera del ragazzino troviamo in bella vista quello di Full Metal Jacket). Quello che sembra voler comunicare con Ore 15.17 – Attacco al treno è una rinascita metaforica del suo paese, o la speranza di una rinascita, sulle orme dell’eccezionalismo americano, che trova le sue radici dalla citazione biblica di John Winthrop dove dichiara che (i futuri) Stati Uniti dovranno operare come “una città sopra la collina”, fungendo da esempio morale per il resto del mondo, ponendo così le basi della cultura statunitense. Una rinascita che vede la trasformazione dell’uomo comune in eroe moderno che ritroviamo anche in Sully, una nuova versione del self-made man che diventa però paladino nella lotta contro il terrorismo, sostenuto dalla preghiera e dalla religione.
Ma nonostante la densità culturale e l’impeccabile bravura di Clint Eastwood il film risulta lento e noioso. La sceneggiatura si sviluppa male e i tentativi di anticipare la tensione durante il film risultano vuoti. C’è un netto disequilibrio nel percorso che porta al nervo dell’azione, e il problema penso sia dovuto alla scelta del tema, più che a un errore di sceneggiatura: un evento che si sviluppa temporalmente in una mezz’ora o poco più non può svilupparsi in 94 minuti di film.