A settembre è stato pubblicato su Plos One e reso noto dall’ANMVI una studio internazionale condotto su un campione di 1.445 Medici Veterinari italiani dei quali il 70% era costituito da donne ta i 24 ed i 74 anni.
A mio parere ho trovato questo studio non solo interessante, ma illuminante, spesso si guarda al veterinario come al san Francesco della situazione in grado di fare miracoli e se non è in grado di farne, soprattutto a buon mercato, diventa un freddo ed insensibile mostro venale; quello che troppo spesso noi “genitori” di figli “pelosi” dimentichiamo è che, sotto quel camice, c’è un essere umano con le sue difficoltà e le sue fragilità che ha semplicemente scelto un mestiere, per certi versi, più impegnativo di alti.
Questa ricerca è volta ad analizzare l’incidenza sulla qualità della vita del medico veterinario nel trattamento di animali sofferenti e nella gestione delle perdite dei pazienti.
Infatti, a quanto pare, si può più facilmente incorrere in problematiche psicologiche da cui essere sopraffatti nel momento in cui l’ansia d’attaccamento (fattore determinato dal ruolo protettivo del genitore in età infantile dell’individuo) è presente o comunque molto elevata.
Lo studio del team italiano Musetti, Schianchi, Caricati, Manari e Schimmenti dal titolo Exposure to animal suffering, adult attachment styles, and professional quality of life in a sample of Italian veterinarians ha però dimostrato che non è solo l’attaccamento a condizionare lo stato di salute del medico che approccia a pazienti gravi, ma anche una contingenza di varianti tra cui l’eccessivo carico di lavoro.
Questi preziosi professionisti che tutelano la salute ed il benessere dei nostri amici animali possono arrivare infatti ad una destabilizzazione tale da perdere la fiducia nella propria competenza professionale ed a vedersi in maniera negativa.
Lo scopo di questa ricerca è quello di attuare delle strategie preventive che mirino a tutelare la salute psicologica dei medici veterinari; infatti, una delle soluzioni vincenti constatate, è quella di di divenire dei “caregiver” (colui che si fa carico nella pratica del malato anche emotivamente e del sistema familiare che lo contorna), garantendo un lavoro che sia animato da minor affaticamento e carico pur conservando la “compassione” necessaria per trattare determinate situazioni delicate. La strategia si può attuare non sottraendosi agli elementi della professione ma promuovendo attività che incentivino l’autostima ed una visione positiva di se e degli altri per non arrivare al burn-out lavorativo.
Una cosa è certa: questo studio che ci dona un’immagine meno fredda ed impersonale del medico veterinario dovrebbe farci apprezzare maggiormente la persona che indossa il camice e spingerci a riflettere su quanto, delle patologie e delle perdite dei nostri beniamini, non siamo gli unici a soffrirne ed a cui condizionano la vita; la prossima volta riserviamo un grazie ed una gentilezza in più senza contrattare sui prezzi come al mercato nei confronti di coloro dai quali pretendiamo reperibilità e disponibilità h24 come se non potessero avere una vita al di fuori della struttura nella quale operano.