Quest’anno l’inquilino di Craven Road ne ha compiuti 30, o meglio la sua serie, perché il tempo come ben sappiamo, non sembra toccarlo. E quando un personaggio, pur se tra polemiche e battibecchi, si rivela così longevo, un segreto di lunga vita – se non di eterna giovinezza – deve pur nasconderlo.
Se lo è domandato Luigi Siviero, che ha cercato di rispondere in questo bellissimo libro del 2012, recentemente riproposto da NPE, proprio in occasione del trentesimo anniversario di Dylan (ve ne abbiamo parlato qui). Con cura filologica, quasi maniacale, l’autore di questo lungo saggio ricostruisce e analizza il canone del personaggio Sclaviano, restituendone con precisione caratteristiche e ambientazione, trame e comprimari. I primi tre capitoli (“Tiziano Sclavi e Dylan Dog”, L’Orrore e i mostri” e “Struttura narrativa di Dylan Dog”) costruiscono una solida base d’indagine e di conoscenze a partire dal nutrito materiale bio-bibliografico consultato. La narrazione viene così restituita ai lettori in una sua parziale unità (oggetto dell’indagine sono dichiaratamente i primi 100 numeri della serie, considerati il “canone” Sclaviano). In questo modo il libro fornisce innanzi tutto un utile strumento per il fan o il lettore che voglia godersi appieno la lettura delle storie “classiche”, attraverso una prospettiva più piena e consapevole delle sottili linee di forza che innervano la serie. In questo senso, il libro, pur strumento prezioso, rimarrebbe un’operazione dedicata sostanzialmente ai fan della serie, apprezzabile ma dall’appeal, e dall’importanza limitati. Sarebbe poco più di una guida alla lettura, adatta sia a neofiti che a vecchi lettori in cerca di nuove prospettive. I dodici capitoli (più tre nutrite appendici), costituiscono in realtà un percorso concettuale, che inserisce criticamente la creatura di Sclavi all’interno di un nutrito pantheon letterario popolato da figure arcinote, come ad esempio Marlowe, Dupin, Bogart. E ovviamente Sherlock Holmes. Proprio il legame con la creatura di Poe si rivela centrale nel saggio, a partire dal titolo. E in fondo l’accostamento è tanto spontaneo quanto complicato: cos’hanno realmente in comune Dylan Dog e Sherlock Holmes? Entrambi detective, e londinesi per di più, entrambi personaggi iconici di una letteratura popolare serializzata (fatte ovviamente le opportune proporzioni).
Eppure a dividerli è un’antitesi quasi assoluta, che l’autore del libro evidenzia chiaramente nel quarto capitolo: se Holmes è freddo, razionalista, disinteressato alle donne quanto generoso bevitore, Dylan è emotivo, sempre in lotta con le sue fobie, astemio ma francamente donnaiolo (o meglio perennemente innamorato). Ma il legame fra i due si cela proprio dietro queste opposizioni. Eppure «Nei fumetti di Dylan Dog, Tiziano Sclavi ha inserito molti riferimenti espliciti a Sherlock Holmes, e in altre occasioni ha fatto cenno al mito del detective creato da Sir Arthur Conan Doyle pur senza arrivare a citazioni aperte e dirette. Deriva dal canone il motto di Dylan Dog secondo cui “Scartate tutte le ipotesi possibili…ciò che resta è molto più divertente, ed è il mio mestiere: l’incubo…”» La frase è un chiaro riferimento all’Holmesiano “scartate tutte le ipotesi possibili, ciò che resta, per quanto improbabile, è la verità”. Quel metodo “deduttivo” – che è in realtà un ben più fallace metodo “adduttivo”( efficace nella finzione Holmesiana soprattutto “grazie alla fortuna o ad un autore compiacente) – viene allora sostituito dal “quinto senso e mezzo: una emersione, anzi una vera e propria ammissione, del ruolo della fortuna (e del caso) nel ruolo del detective. I due personaggi in si rivelerebbero così le due facce di una stessa medaglia, il segno di un mutamento epocale, che dalla fiducia positivista nella scienza del XIX secolo ha portato, attraverso autori come Friedrich Dürrenmatt, ad un rapporto più oscuro e ombroso con la stessa scienza. Essa non può tutto, ci ha spiegato Heisenberg col suo principio di indeterminatezza. E i suoi frutti possono essere avvelenati, ci ripete il ‘900. L’osservazione può essere falsificata, perché il rapporto dell’uomo col proprio mondo conserva un’irriducibile nucleo di soggettività.
Il segreto di Dylan Dog, probabilmente, è proprio in questa sua capacità, così squisitamente post-moderna, di ricordarci l’importanza che il caso e l’assurdo ha nelle nostre vite. Di svelarci la banalità dell’incubo e, con l’aiuto di Groucho magari riderci un po’ su. Perché in fondo i mostri siamo noi.