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Reading: “Rimpalli” di Teodoro Lorenzo, tra strada e pallone la bellezza di un sogno vissuto
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© 2022 Senzalinea testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Napoli n. 57 del 11/11/2015.Direttore Responsabile Enrico Pentonieri
Libri

“Rimpalli” di Teodoro Lorenzo, tra strada e pallone la bellezza di un sogno vissuto

Enrico Pentonieri
Enrico Pentonieri 3 settimane fa
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6 Min Lettura
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Quale è la differenza fra giocare a calcio e giocare a pallone? Per Teodoro Lorenzo, autore dello splendido romanzo autobiografico “Rimpalli” non c’è alcun dubbio. La differenza è la stessa che c’è fra il talento di Pelè e quello di Maradona. Il primo, un gran giocatore al servizio del calcio, lavoratore indefesso e autore di oltre mille goal. Il secondo un bambino che non è mai cresciuto, un Peter Pan sempre dalla parte dei bimbi sperduti, a rincorrere felice un pallone nell’isola che non c’è, fra mille avventure spericolate. Il calcio è un lavoro, il pallone è un magnifico gioco!

Con un taglio di scrittura preciso e personale, l’autore ci trasporta nella sua storia, fra la malinconia di piazzette trasformate in campi di calcio, di un tempo che ormai non esiste più, fino alla partita che avrebbe potuto cambiare le sorti della sua Alessandria, dove ha militato per molti anni. In mezzo c’è l’altra storia, quella fatta di nomi importanti, alcuni dimenticati dal tempo, altri ancora oggi osannati e venerati.

Ma il cuore di tutto è il pallone, la sfera che è nello stesso tempo amico e nemico, l’amore e l’odio che trascina in Paradiso o all’inferno, l’unico che in un attimo può trasformare le lacrime in un sorriso e viceversa.

Teodoro Lorenzo riesce con semplicità a raccontare una biografia a volte dolorosa, fra gli alti e i bassi, salite e discese, fatiche e sudore, gioie e dolori. I rimpalli di un pallone come la metafora di una vita vissuta nel modo più genuino possibile, con lo sfondo di un’Italia che in cinquant’anni si è completamente modificata, perdendo quella schiettezza e semplicità. Come dare un calcio ad un pallone verso una porta invisibile su di un campo disegnato con il gesso.

Come nasce il romanzo “Rimpalli”?

Volevo dare l’addio al calcio, giocare la mia ultima partita e sistemare un paio di cose che mi portavo dietro dalla mia esperienza di calciatore.

Scrivendo mi sono accorto però che la motivazione era diversa, ben più profonda. I ricordi mi portavano sempre più indietro, quando nella mia vita non esisteva il calcio ma solo il pallone.

Ho capito allora che era la mia infanzia quella che volevo ritrovare, giocare ancora a pallone e soprattutto stare con mia mamma, che non c’è più.

Quanto è cambiato il calcio negli ultimi anni?

Penso che siano diventati addirittura due sport diversi. Tutto è cambiato: il modo di giocare, di allenamenti, gli indumenti, perfino il linguaggio che si usa per raccontarlo.

Il discorso sarebbe lungo. Per rimanere più strettamente allo svolgimento del gioco, dico che non mi sembra più calcio, la cui bellezza continua a risiedere nella tecnica, nel dribbling e nelle verticalizzazioni. Oggi la tecnica è scarsa, saltare l’uomo è un miracolo che si avvera raramente e lo sviluppo dell’azione si limita perlopiù a continui ed estenuanti passaggi orizzontali o, peggio, retropassaggi. Se ci pensate sono le regole del rugby: solo passaggi laterali, vietati quelli in avanti. Il calcio è diventato così una sorta di rugby giocato con i piedi. Non lo riconosco più, e sinceramente mi annoia.

Nel libro ci ha narrato varie storie della sua vita, calcisticamente quale è il ricordo più bello e quello più brutto?

Il più bello è quello che non ho raccontato. Avevo dodici anni e giocavo nei ragazzini della Juve. A Nizza, nello stadio della città, giocammo una finale con il Lierse, una squadra belga. Era un torneo a cui avevano partecipato venti squadre, provenienti da tutta Europa, una specie di Coppa dei Campioni giovanile. Ci schierammo a centrocampo prima dell’inizio della partita, i capitani con in mano la bandiera del proprio Paese. Sento ancora addosso, dopo cinquant’anni, il brivido che provai quando suonarono il nostro inno nazionale. Vincemmo due a zero.

Su La Stampa di Torino, al nostro ritorno, sopra la nostra fotografia, leggemmo questo titolo: “E’ baby la prima coppa della Juve”.

Il più brutto l’ho raccontato nel libro. Avevo diciassette anni, giocavo sempre nella Juve, e sempre in notturna, durante la partita di un torneo ad Abbiategrasso contro il Sant’Angelo Lodigiani, in uno scontro mi fratturai il condilo mediale del femore destro.  Subii tre operazioni, rimasi fermo un anno. Avevo conosciuto il dolore.

Un sogno nel cassetto?

Sono anziano ormai; come diceva Vittorio Gassman ho un grande avvenire dietro le spalle. Per me i giochi sono fatti: vivo negli occhi dei miei figli. Il mio sogno è vedere in essi la felicità.

Esclusa la rete di Maradona contro l’Inghilterra, quale è la realizzazione che ricorda l’ha più colpita?

Mi ha colpito invece, e lo ricordo ancora con grande tristezza, un gol non fatto. Il rigore sbagliato da Baggio nella finale con il Brasile di USA 94. Più per lui che per noi italiani. La sua storia, di uomo e di campione, meritava sicuramente un finale più degno.

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