SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano è una docu-serie originale realizzata da Netflix, prodotta da Gianluca Neri con la regia di Cosima Spender.
Il documentario si articola attraverso testimonianze dei protagonisti dell’epoca e immagini/video di repertorio distribuiti in 5 episodi dai titoli significativi : nascita, crescita, fama, declino, caduta con un racconto dettagliato sulla storia di San Patrignano, tutto incentrato sulla figura carismatica e ambigua del suo fondatore, Vincenzo Muccioli.
La comunità di recupero di San Patrignano venne fondata da Muccioli nel 1978, a Coriano, in provincia di Rimini su una collina di sua proprietà, una fattoria che viveva di prodotti della terra e di allevamento di animali.
Man mano che l’accoglienza dei tossicodipendenti aumentava e le richieste divenivano sempre più insistenti, la dimensione della comunità cambia e si ingigantisce in estensione, attività e caratteristiche con animali non solo da allevamento ma anche da competizione, come cavalli e cani di pregio in grado di vincere gare di carattere anche internazionale fino a contenere per un periodo di tempo, persino, uno zoo e animali esotici: una sorta di embrionale “pet therapy”.
L’idea di Muccioli era che il lavoro potesse strappare alla dipendenza i giovani ed ecco perché il suo metodo di recupero si reggeva prevalentemente sulla funzione educativa e di reinserimento sociale del lavoro.
La serie documentaristica delinea la storia di San Patrignano dai suoi esordi e nella sua evoluzione di comunità, ricorrendo alla voce narrante dei protagonisti della vicenda, non di tutti ma solo di quelli che hanno voluto fornire il proprio contributo, nelle luci ed ombre di una vicenda umana, giudiziaria, storica, processuale, che ha tenuto banco all’epoca per le ambiguità, la complessità, le contraddizioni, le omissioni, i sacrifici e le opere realizzate in un contesto difficile e omertoso degli anni ’70.
Si assiste ad uno spaccato dell’Italia e dei suoi giovani, sempre più vittime del consumo di eroina che, in preda alle crisi di astinenza, divenivano schiavi della droga e della dipendenza, che li portava a commettere spesso rapine, furti, violenze per procacciarsi le cifre necessarie ad acquistare le dosi i cui costi erano particolarmente esosi e proibitivi, circa 150 mila lire al giorno (80 euro di oggi ma col peso del vecchio conio).
Nel solco del silenzio di uno Stato indifferente ed omertoso che non voleva farsi carico di queste anime perse, socialmente ripudiate e delle famiglie disperate di fronte all’impossibilità di aiutare i propri figli, fratelli, familiari in altra maniera, i giovani si riversarono numerosissimi nelle colline riminesi presso la tenuta con l’offerta di un aiuto gratuito e la promessa di guarire e uscire dall’incubo della dipendenza da parte della famiglia Muccioli.
La storia di Muccioli é una storia di per sé complessa e la stessa scelta della produzione di Netflix di articolarla in un crescendo e succedere dei fatti dal titolo degli episodi quasi taumaturgico è funzionale alla narrazione e alla rappresentazione dei fatti storici con un certo distacco e un’auspicata oggettività, in alcuni casi mancante.
Sta di fatto che Muccioli non aveva alcuna formazione nel campo delle tossicodipendenza né dal punto di vista medico né sociologico né psicoterapeutico.
Il suo metodo o, forse meglio dire, la completa assenza di un metodo terapeutico rendono l’esperienza di San Patrignano unica nel suo genere e sotto certi aspetti, criticabile.
Figura centrale per il successo della comunità è stato proprio il suo fondatore che agiva da solo e d’impeto su impulso di idee ed esperienze sul campo in totale assenza di un lavoro in team con esperti multidisciplinari: insomma una realtà che oggi fa rabbrividire per l’improvvidenza e il coraggio.
Muccioli si presenta all’interno del racconto nella sua enorme ambiguità e magnanimità come un gigante buono che accoglie, abbraccia, educa, rimprovera, indirizza, crea, costruisce, zittisce, spaventa come un vero pater familias o padre padrone, usando quando necessario anche le maniere forti, primo fra tutto l’obbligo del rispetto rigoroso delle regole severe di vita da svolgere in comunità; l’obbedienza incondizionata ai suoi dettami con la conseguenza di punizioni, anche al limite della legalità con catene e stanze punitive, come la nota piccionaia dove isolarsi e riflettere, e vivere una catarsi spirituale per decidersi a cambiare vita; l’applicazione stretta del detto “questa casa non é un albergo” con il dovere di contribuire alla tenuta della comunità e, quindi, di lavorare; rispettare orari e restrizioni come in un regime di “prigionia” (non si può dimenticare che molti dei suoi ospiti erano destinati al carcere in moltissimi casi essendosi resi responsabili di reati di rapina, furti, scippi, violenza in famiglia e il recupero offerto da Muccioli diveniva spesso una misura alternativa alla detenzione); non allontanarsi né lasciare la comunità senza il suo consenso tanto da essere stati quasi tutti i fuggitivi recuperati e riportati indietro, magari anche contro la loro volontà; rimproverare i propri figliocci smarriti, anche con una tiratina d’orecchie se necessario, qualche ceffone deliberato sul momento e, in extremis, col cd. ciocco, una sorta di pubblica mortificazione e denigrazione di un comportamento o di un’idea o di un atteggiamento di uno dei suoi ragazzi, come amava dire, che avveniva quasi sempre a sorpresa e dirompeva durante il rituale del pranzo tutti insieme; e un banale sistema premiale che consisteva in una dotazione di 10 sigarette a testa.
E se un metodo terapeutico può rinvenirsi é nella sua forte personalità carismatica che si ingeriva e parlava personalmente con tutti i tossicodipendenti che decideva di accogliere, premiandoli con la sua fiducia man mano che sembrava uscissero dalla dipendenza e con la catena degli affidamenti ovvero ogni ospite prendeva in carico un nuovo ospite in modo da poterlo supportare con la forza della sua esperienza, aiutarlo e guidarlo nel caso di sbandamento o smarrimento e riportarlo sulla giusta strada e ovviamente controllarlo a vista, impendendogli di sbagliare e impedendo il crearsi di pericolose alleanze o insurrezioni alla terapia e al discutibile metodo terapeutico.
Indubbiamente l’agire di Muccioli si é rivelato vincente soprattutto nelle prime fasi della storia della comunità di Sanpa quando gli ospiti erano poche centinaia e Muccioli, non ancora popolarissimo e poco attratto dalle luci della ribalta, riusciva a tenere testa alla gestione delle singole individualità e dei singoli progressi o regressioni o ritorni di fiamma alla dipendenza, ma quando la comunità assume una dimensione vastissima arricchendosi, addirittura, di un ospedale per la cura dei malati di Aids sempre più numerosi, la delega di funzioni diviene indispensabile.
Solo che a riceverla non sono soggetti psicologicamente e umanamente attrezzati a riceverla e, dunque, la delega diviene ben presto occasione di abuso ed eccesso di potere con qualche punta di senso di onnipotenza e inadeguatezza, non tanto quanto accompagnatori o guide di un percorso di recupero quanto alla stregua di reiette guardie da campo di concentramento improvvisate nel ruolo ed eccedenti nelle conseguenze …il che nella docu-serie viene interpretato come l’inizio del declino di Sanpa e anche del suo fondatore, esposto a distanza di pochi anni alle grinfie della giustizia e alla condanna dell’opinione pubblica prima per maltrattamenti e violenza con abuso nei mezzi di correzione (uso di catene, isolamento, botte e punizioni), per la morte drammatica di Natalia Berla, un suicidio su cui si insinuano tanti dubbi dovuti alla sua ribellione e fors’anche alla mancanza di idonee cure e forme di sostegno psicologico per alcune anime fragili cadute nel tranello della dipendenza e necessitanti di un aiuto e di interventi di altra natura e, poi, nel drammatico risvolto del processo per la morte di Roberto Maranzano ad opera di Alfio Russo, ex tossico, divenuto nel tempo responsabile del reparto macelleria, conosciuta, peraltro come un’area punitiva della comunità dove finivano i ribelli, gli indisciplinati, i disobbedienti, noto come il “picchiatore” non certo per le sue doti da pacifista e Muccioli si ritrova a dover digerire l’accusa di favoreggiamento e concorso in omicidio colposo, per aver protetto gli aguzzini e per aver taciuto su ciò che gli era stato confessato subito dopo l’avvenimento e che aveva colpevolmente omesso di denunciare.
Il processo non si concluse nei diversi gradi di giudizio per la morte sopravvenuta di Muccioli mentre Alfio Russo é stato condannato.
Spesso i ragazzi vivevano in comunità per anni prima di poter tornare alla propria vita e, comunque, perdevano i contatti con le famiglie di origine e probabilmente il contatto con la realtà esterna.
Persino, la loro corrispondenza veniva passata al setaccio della censura, aperta e controllata nei contenuti, nei modi e nei messaggi dalle persone di fiducia del fondatore e, quindi, non veicolata né spedita laddove pericolosa o rivelatrice di scomode verità per la comunità e la sua serenità.
La libertà degli ospiti era, dunque, fortemente limitata e ristretta, con lo scivolare lento e graduale verso abusi ed eccessi incontrollati.
Ecco perché l’opinione pubblica si è più volte trovata divisa e combattuta nei confronti di San Patrignano, pur ricevendo una acclamazione viva e solida soprattutto nel corso del primo processo in primis dalle famiglie disperate coinvolte che vedevano in Vincenzo una forza salvifica tanto da incidere sull’opinione di un intero paese, abbattere degli stereotipi e accogliere i tossicodipendenti bistrattati dalla società e dallo Stato.
Proprio lo Stato che ad un certo punto avallo’ sempre più la realtà di Sanpa e il suo operato che aveva il pregio di liberare le città dal brutto spettacolo di questi spettri umani scheletriti che spesso si lasciavano morire sulle panchine, nei parchi, per le strade in preda a mortali overdose quand’anche non commettevano reati o spaventavano le persone con le minacce di siringhe infette di Aids.
Molto più comodo non vedere non sapere e, soprattutto, non indagare sui sistemi agiti da Sanpa perché l’obiettivo era centrato, i drogati non erano più per strada e per le loro scelte e i loro errori andavano puniti e purificati anche a suon di ceffoni e in questo la macchina di Muccioli si è rivelata temporalmente quanto mai opportuna ed essenziale per salvare tante vite che sarebbero andate perse.
Si parla di circa 22 mila persone salvate dalla dipendenza.
Un dato non di poco conto e se effettivamente la comunità ha conosciuto il dramma dei suicidi, delle morti per aids e dell’omicidio, nonché nei maltrattamenti e nei metodi poco ortodossi di recupero, il risultato resta, comunque, un successo pur se velato da chiaroscuri, dubbi e perplessità perché l’alternativa era lasciarsi morire nel silenzio colpevole di uno Stato assente e senza SanPa e senza Muccioli ci sarebbero state sicuramente più perdite di vite umane con una conta drammatica.
E così la serie rappresenta un alternarsi costante delle due anime di Muccioli: quella del gigante buono che abbraccia da padre protettivo i propri figli e quella del manipolatore, colpito da delirio di onnipotenza, al cui carisma indiscusso tutti erano asserviti con tendenze allo spiritualismo e spiritismo mistico portando i segni di stigmate alle mani che da solo si sarebbe provocato.
Insomma una personalità complessa dalle mille sfaccettature, contraddizioni e punti oscuri che hanno accompagnato la sua figura in vita e anche ora, ruotano intorno a due grandi enigmi : era davvero un benefattore o ha saputo approfittare del momento per fare affari e creare un impero o per altri interessi sconosciuti come la sua stessa autosantificazione?
La serie non risponde alle domande, lasciando volutamente lo spettatore libero di guardare i fatti e farsi un’idea, seppure con qualche incertezza e imprecisione narrativa e descrittiva.
Gli autori hanno dichiarato di aver lavorato con un’immensita’ di materiale audio-video con ben 180 ore di interviste e con le immagini tratte da 51 differenti archivi per tentare di ricostruire la storia in modo accurato partendo dai fatti e dai racconti dei protagonisti.
La scelta narrativa si presenta assai originale e cerca di tener fede ad una modalità giornalistica di reportage e ricostruzione dei fatti senza interventi posticci ma attraverso le parole e le interviste a chi ha vissuto la storia da vicino, da dentro, in prima persona.
Ma chi sono i protagosnisti del racconto?
Anzitutto, Andrea Muccioli, uno dei figli di Vincenzo, che dopo la morte del padre è stato a capo della comunità dal 1995 al 2011 e che cerca di rivendicare il ruolo puro di benefattore del padre che aveva scelto quella strada in piena coerenza col momento storico caratterizzato dalla presenza di “comuni”, ovvero di famiglie che vivevano in comune con altre famiglie, così come Muccioli intendeva soprattutto realizzare nei primi tempi dell’accoglienza e della comunità, inteso come vivere insieme.
Antonio Boschini, arrivato lì tossicodipendente, ospite di SanPa, nel frattempo laureatosi e divenuto medico grazie al supporto di Muccioli e tuttora impegnato nella comunità come responsabile terapeutico.
Il giudice Vincenzo Andreucci che, in entrambi i processi, avviò l’accusa nei confronti di Muccioli e si ingeri’ nelle dinamiche terapeutiche di San Patrignano, imsinuando per la prima volta il dubbio sulla reale efficacia del metodo Muccioli.
Leonardo Montecchi, responsabile del Sert di Rimini che descrive la difficoltà di una collaborazione fattiva con Muccioli e la sua diffidenza nei confronti dei sistemi di prevenzione e cura della tossicodipendenza, a suo dire sicuramente insufficiente ed inefficiente.
Sergio Pierini, ex sindaco di Coriano.
Il giornalista Luciano Nigro che ha vissuto e documentato tutte le fasi di Sanpa dalla sua nascita con file di richiedenti asilo, i processi, le parole e i pensieri di Muccioli che ha conosciuto personalmente attraverso una secca cronaca giornalistica.
Red Ronnie, speaker radiofonico e conduttore televisivo molto popolare all’epoca ed amico personale di Vincenzo Muccioli che ha preso le distanze dal prodotto realizzato da Netflix per mancanza di oggettività e per aver sprecato l’opportunità di descrivere la grande bontà di intenti e di azioni di Muccioli che, non senza essere provocatorio, definisce a tutti gli effetti come un santo, con tanto di documentato intervento salvifico di Muccioli nel recuperare in diretta su un suo programma una delle sue tante pecorelle smarrite.
Due ex tossici-ospiti di San Patrignano, Fabio Mini e Antonella De Stefani, molto critici nel condannare Sanpa, la loro esperienza vissuta e le logiche sottese alla vita in comunità.
Aleggia in tutta la serie la presenza dei sostenitori di Sanpa ovvero la famiglia Moratti che, nel corso del tempo, ha elargito miliardi di lire e creduto fermamente nel progetto e nella persona di Vincenzo Muccioli ma che ha preso le distanze dalla serie e disapprovato il racconto e resoconto finale.
E, infine, fondamentali ai fini della narrazione altri due ex tossicodipendenti e ospiti della prima SanPa, che sono divenuti, nel tempo, due stretti collaboratori di fiducia di Vincenzo Muccioli: Fabio Cantelli, suo portavoce negli anni 80-90 e Walter Delogu, autista e guardia del corpo.
Fabio Cantelli oggi ha 58 anni. Ha vissuto a San Patrignano in totale per dieci anni.
La sua mimica facciale, il suo viso scavato e provato, la fragilità fisica e la sua asciuttezza nel racconto e nel corpo unito al dolore per il vissuto hanno caratterizzato la serie.
Il suo contributo é forte perché la sua vicinanza a Muccioli e il suo ruolo di portavoce, partendo dalla sua esperienza di ex tossico in cura, ammalatosi di Aids, rendono il tutto molto verosimile e coinvolgente.
Lascerà la comunità quando – dichiara – si è trovato in «conflitto etico interiore» sentendosi«ormai troppo distante da quello che SanPa era diventata e da come sarebbe andata avanti».
Attualmente vive a Torino ed è vice presidente del gruppo Abele, onlus fondata nel 1965 da don Luigi Ciotti che si occupa di tossicodipendenza, emarginazione, Aids, progetti di aiuto alle vittime di tratta e ai migranti.
Nel descrivere San Patrignano, identifica la terapia, fondamentalmente, in Vincenzo Muccioli, nella sua forza magnetica e carismatica di seguire ciascuno di noi fino a che fu possibile. L’arma vincente di Sanpa, a suo avviso, che, nella sua lunga esperienza di recupero, aveva incontrato psicologi e terapeuti, non traendone beneficio né la forza e voglia di uscire dalla dipendenza era proprio l’essere stati tossici. Un momento fondamentale di San Patrignano era quando Muccioli ti chiamava, dopo qualche tempo che eri lì e avevi dato prova di responsabilità, e ti diceva: “Guarda, è arrivato tal dei tali e tu sarai la sua guida qui dentro”. Diventavi tu il custode, come eri stato custodito e accudito».
Walter Delogu, salvato da Muccioli dalla tossicodipendenza e dalla malavita, diviene uomo di fiducia, guardia del corpo e autista, e allo stesso tempo uno dei suoi maggiori traditori, rivelando in corso di processo l’altro volto, quello privato insospettabile di Muccioli, accrescendo l’onda violenta dei sospetti e delle illazioni sul suo conto, anche con riguardo alla sua morte e alla sua presunta sessualità.
A conti fatti, il registro giornalistico prescelto, il montaggio del materiale raccolto, in parte esclusivo, accende i riflettori prevalentemente sulle tenebre e le ombre di SanPa ed é a mio avviso colpevole di alcune dimenticanze non trascurabili e importanti ai fini della narrazione reportistica effettuata che forse avrebbero ingenerato meno pareri discordanti e accuse di mancata oggettività.
Non si può non encomiare il lavoro, lo sforzo, l’impegno e la dedizione di Vincenzo Muccioli che ha fatto del bene, investendo sulla sua personalità e sul suo temperamento, fungendo da esempio nel mondo che ha attinto dall’esperienza di San Patrignano e dal suo studio e osservazione spunti importanti per costruire le comunità di accoglienza.
Ad onore del vero, non delinea a tutto tondo la figura di uno degli intervistati e accusatori di Muccioli: Walter Delogu che, dopo la scissione con il suo capo, é stato condannato per estorsione dopo aver ottenuto 150 milioni di lire a titolo di buonuscita che Muccioli gli consegnò di fronte alla minaccia con la pistola puntata alla tempia di sua moglie.
E che ora lavora come autista per il 118 mostrando con fierezza un tenore di vita sostenuto, con tanto di motocicletta e tavola da surf, funzionali ad una narrazione volutamente insinuante come quando sia Delogu che Cantelli, aiutati dalla forza equivoca delle immagini montate ad arte dalla regista, lesinano sulle cause della morte improvvisa del loro boss dopo essersi ritirato nella sua casa accennando ad ipotesi di omosessualità e di probabile contagio da Aids.
Una scelta non apprezzabile perché il giudizio su eventuali scelte sessuali di Muccioli e sulle vicissitudini della sua malattia non arricchisce il racconto né fornisce un contributo se non un carattere puramente pruriginoso e oggettivamente poco significativo e assolutamente irrilevante per la narrazione da un punto di vista giornalistico.
Particolarmente significativo il contributo di Muccioli alla lotta all’Aids, con la costruzione di un Ospedale interno alla struttura segno di grande intelligenza e di grande intuito per quella che sarebbe stata per un periodo storico una malattia mortale e altamente temibile.
La serie si fa vedere e si gusta nella curiosità e voglia di conoscenza di una parte della nostra storia recente con una morale finale se se ne può trarre una: che agire e fare del bene non è senza conseguenze ma richiede impegno e responsabilità ed espone ad errori e cadute quando non si hanno le giuste competenze e conoscenze da cui, a volte, diviene difficile rialzarsi e nel caso di Muccioli questa parabola c’è tutta…finanche col colpo di scena finale della sua insinuata omosessualità e della sua morte per Aids, negata, però, con insistenza e sdegno dalla famiglia.