Capaccio, 3 agosto 2016 – Di fronte all’antico Palazzo Bellelli, donato a suo tempo al comune, una trentina di persone aspetta che venga aperto il grande portone di legno. Di lì a poco diventeranno circa cinquanta, sono tutti del posto, si conoscono e si riconoscono chiacchierando mentre l’aria si carica di aspettative: questa notte un concittadino sta per tornare a casa, dopo anni di assenza.
Alle 21:30 finalmente il portone dell’ex asilo, ora sede dell’associazione “Agorà dei Liberi”, si apre. La piccola folla può finalmente prendere posto sulle sedie che riempiono il cortile interno. Al centro dello spiazzo un tavolino ingombro di oggetti dall’aria vissuta, e un ragazzo, in pantaloni scuri e camicia a quadri che li accoglie già: “Siete venuti a trovarmi?”
Matteo Pecorini mette in scena il diario di A.L. (il nome resta puntato perché la vicenda non ha esaurito i suoi strascichi sociali, giuridici e soprattutto emotivi. Qualcuno a fine spettacolo lo ricorda perfino.), un cittadino del posto che molti anni fa terminò la sua vita nell’Ex Ospedale psichiatrico di San Salvi a Firenze.
Matteo/A.L. si muove fra gli spettatori senza alcun distacco. Li rende partecipi, li interpella costantemente, li provoca ottenendo risposte sempre diverse. E nel frattempo racconta senza sosta la propria storia, che è quella di una vita normale, di un uomo vissuto a cavallo fra la prima e la seconda metà del secolo scorso.
Eppure la partecipazione del pubblico è totale: gli occhi lo seguono nei suoi movimenti a volte febbrili, maniacali, a volte calmi e posati. Lo ascoltano inframmezzare la lucida cronaca dei suoi anni alle ripetizioni vagamente deliranti che scandiscono la narrazione, dandole quasi il ritmo e la cadenza della tradizione orale.
Per 5 volte abbandona lo spazio scenico, entrando nel palazzo, poi uscendone, a volte continuando a raccontare la sua storia voce, fuori campo, quasi parola disincarnata, creando tra gli spettatori un’assenza piena, costringendoli a guardarsi, a percepirsi come corpi nello spettacolo. Quando ogni barriera è caduta è ora di tornare in scena: la pièce finisce così, con tutto il peso e la leggerezza dei puntini sospensivi. Che è in fondo il finale sottinteso di ogni storia.
Dopo lo spettacolo Matteo incontra alcuni dei suoi spettatori, fra i quali il sottoscritto, di fronte ad un calice di vino. Spiega la sua idea di teatro, la sua provenienza culturale, il suo rapporto col tema della Follia.
Venticinquenne fiorentino, laureatosi in psicologia si era reso conto che questa disciplina stava perdendo di vista le sue priorità, riducendosi lentamente ad un “insieme di categorie con cui etichettare le persone”, dice citando un suo vecchio professore.
E allora?
E allora con il teatro ho provato, assieme alla compagnia “Chille della Balanza” di cui faccio parte, a superare la vecchia idea del pazzo urlante, farneticante, per riportare in scena la storia del singolo, la sua identità e dignità di persona. Assieme ovviamente al loro disagio, che pure esiste. Franco Basaglia diceva «Guai a dire che i matti non esistono. Il disagio c’è.» Però, fra la malattia e il paziente è sempre quest’ultimo che deve prevalere.
Come nasce “Siete venuti a trovarmi?”
Dal ritrovamento fortunoso del diario di A.L. Come questo sia arrivato nelle mie mani è una vicenda lunga, complessa e fortemente debitrice del caso, oltre che del lavoro di recupero di materiale che tanti volontari stanno svolgendo nella struttura del San Salvi.
Per altro, ci rivela, il caso ha avuto un ruolo fondamentale anche nella rappresentazione di questa sera…
Ero ad Aversa con la compagnia Chille della Balazza, del maestro Claudio Ascoli, per un altro spettacolo: C’era una volta… il manicomio. Fra il pubblico c’è un ragazzo di Capaccio, che legge il retro della locandina dello spettacolo, in cui è stampata la notizia del mio monologo. La sera stessa mi contatta su Facebook” – “mi tocca anche dare una possibilità a questo mezzo”, aggiunge divertito – “e mi chiede: «lo fai anche a Capaccio?»”
Il ragazzo si chiama Luigi Marone, ed è in piedi fra di noi, ad ascoltare ridendo quella storia che già conosce. “Ha fatto tutto senza perdere tempo, non ha detto poi lo chiamerò, lo ha fatto. La sera stessa. E poi, grazie all’Agorà dei Liberi, siamo riusciti a riportare il racconto di A.L. nel luogo in cui era iniziato”. Parla con un certo trasporto, visibilmente emozionato nel trovarsi in quel paese tante volte citato nei suoi monologhi (“Quanto è bella Capaccio”, continua a ripetere nel suo diario A.L.).
Poi il teatro, la tecnica, il suo modo di vedere l’arte.
La tecnica è importante. Gran parte del lavoro dell’attore è esercizio, rigore. Ma la tecnica non deve diventare tecnicismo. Se la reazione dello spettatore è semplicemente dire “che bravo!” l’attore ha fallito, ha creato una distanza fra sé e gli altri piuttosto che aver comunicato una qualche emozione. Il mio maestro, Claudio Ascoli mi ha insegnato che il “teatro deve essere un dito nel culo”: in positivo o in negativo deve scuoterti in un istante, dopo aver creato un senso di quiete, quando non te l’aspetti. E’ per questo che amo Napoli – e con Napoli intendo tutto il sud. Qui non esiste l’indifferenza, nessuno dice “è stato carino”. Piaccia o non piaccia lo spettacolo, la reazione è sempre forte. E in fondo la mia “cosa teatrale”, come la chiamo, serve proprio a comunicare il disagio, a creare un legame emotivo con quel pizzico di follia, di diversità che ognuno di noi si porta dietro.
E adesso?
Adesso tornerò ad Aversa, domani mattina, per un rapidissimo saluto agli amici di lì. E poi di nuovo a casa a Firenze, per preparare le prossime date. Ce ne sarà una a Sa Miniato (Pisa), il 9 agosto, e ad ottobre sarò a Palermo e a L’Aquila, nell’ambito del progetto Case Matte.
Nturalmente la promessa è di ritornare presto a Capaccio, da dove A.L. era partito, tanti anni fa….