L’abbiamo aspettata tanto questa nuova puntata del nostro amico di aracnidee abilità. E questo nuovo lavoro Marvel sull’ennesimo Re-Boot del più atletico ragnetto di sempre conferma una cosa: Tom Holland è sempre più saldamente al secondo posto dietro l’inarrivabile Tobey Maguire.
Peter Parker torna a fare lo scolaro, tirando le somme in ragione delle catastrofiche conseguenze della guerra tra Thanos e gli Avengers. Il lutto e una situazione generale assai pasticciata hanno lasciato il segno sul giovanissimo virgulto del Queens, in prossimità di una vacanza scolastica che lo porterà presso più importanti città europee, tra cui Venezia e Praga.
L’avvenente Zia May (Marisa Tomei) è rimasta a New York, Peter parte insieme al fido amico Ned, in tasca un “piano” per dichiararsi a chi le ha rubato il cuore: MJ, mentre anche altri le fanno una corte serrata. Nel frattanto, il redivivo Nick Fury (Samuel L. Jackson) gli sta alle costole anche mentre l’Uomo Ragno vorrebbe godersi la “gita” e non ha alcuna intenzione di fargli tirare il fiato. Del resto, c’è un mondo da salvare, e da una nuova minaccia, che prende il nome di Elementali; una specie proveniente dalle viscere del pianeta. La questione è questa: in assenza degli Avengers, è Peter a essere chiamato ad aiutare un eroe in visita da una Terra parallela, Quentin Beck (il Jake Gyllenhaal di Donnie Darko).
Tra i film forse più insidiosi da realizzare nella lunga serie dei 23 che compongono il Marvel Cinematic Universe, il capitolo due del nuovo ciclo dell’Uomo Ragno ha l’onere e il dovere di introdurre la prossima fase della saga, con l’assegno di offrire una necessaria elaborazione del lutto, specie dopo dieci anni di racconto che hanno appena offerto la cosa più vicina a una fine che potranno mai avere.
Devo dire che la squadra di Kevin Feige e il regista di ritorno Jon Watts, si superano, riuscendo a ricreare le condizioni di una seduta di terapia collettiva autentica e minuziosa, al tempo stesso così divertente; e devo dire che è un’impresa non inferiore alla creazione dell’epilogo perfetto in “Avengers: Endgame”.
Il Peter Parker di “Far from home” è ora un veterano ferito come il suo mentore Tony Stark, ma è anche un Captain America innestato in mondo liceale vagamente Nerd, rimasto sedicenne per cinque anni, al contrario di alcuni suoi compagni, che nel frattempo crescevano a dismisura. Una crescita-non-crescita che lo ha fatto di certo maturare, ma non al punto da renderlo in grado di trovare tutte le risposte che il mondo chiede a Spider-man: il suo stress post-traumatico di fronte a una folla ansiosa di sapere dove, come e in quale forma, gli Avengers siano ancora tra loro è la stessa di un esercito globale di fan, cullato per un decennio nella sicurezza seriale e poi trafitto dal senso di una fine.
E mentre la Marvel narra con voluttà della propria eccentricità esistenziale (qual è la sorte di una società quasi assuefatta dalla presenza di eroi? Quante stranezze siamo disposti ad accettare prima di metterla in discussione?), arrivando davvero vicina a connotare la pellicola con una dimensione più che pseudo-politica, l’efficacissimo Tom Holland funziona proprio laddove ostenta un approccio assai più umile di interpreti come Andrew Garfield, quasi pentito di aver ricoperto il ruolo. “Resta appiccicoso” gli urla dall’abitacolo di un aereo Happy, il vecchio assistente di Tony, parte di una galleria illusoria di figure paterne che attraversano il film.
Jon Favreau, che lo interpreta, è in fondo il primo vero padre putativo, ove ben noto regista del primo ‘Iron Man’, e funziona alla grande come anello di congiunzione che permette di trattare i temi principali dell’Uomo Ragno (Zio Ben, la responsabilità e il lutto di una origin story che la Marvel saggiamente non gli ha dato) attraverso la figura para-mitologica di Stark, quel Robert Downey Junior, assente, ma più che mai protagonista.
E per chi si chiedesse cosa ha spinto un attore come Jake Gyllenhaal a entrare finalmente nel giro dei supereroi, basta mettere da parte i raggi verdi e il mantello viola, in favore di una maggiore osservazione di un paio di occhiali di proprietà di Tony Stark, indossati per un attimo, ma sufficiente a dar luogo ad una somiglianza inaspettata quanto invero poco artefatta.
In un trionfo di complesse allegorie e spettacolo itinerante, tra i canali di Venezia e il Tower Bridge di
Londra, “Spider-man: Far from home” non distoglie mai l’obiettivo dalla convinta e costante valorizzazione del nucleo dei personaggi, come un professore ansioso nel tenere unita la classe durante una gita.
Un lavoro la cui base era stata gettata in “Homecoming” e che dà i suoi frutti spingendo l’Uomo Ragno a unire (letteralmente) le sue due anime, quella degli amici e della riuscitissima commedia, e quella di eroe sempre più consapevole, finalmente svelato a se stesso