Frank Sheeran è un veterano della Seconda Guerra Mondiale, ora autista di autoarticolati imponenti almeno quanto la sua storia. Un incontro particolare gli riapre le porte a una vita singolare: Russell Bufalino, boss della mafia di Filadelfia, che dal punto di vista professionale se ne “innamora”. Infatti scorge in lui una peculiarità imprescindibile per quelli come lui: è affidabile come pochi.
Le famiglie di Frank e Russell stipulano un rapporto così intenso che, al confronto, il termine “amicizia” diventa quasi eufemistico. Tuttavia, essa continua a imperarsi su traffici assai poco puliti e operazioni di discutibile moralità.
Russell vede in Frank la punta di diamante della sua organizzazione, al punto da presentarlo a Jimmy Hoffa, il capo del sindacato dei camionisti, la cui fama lo precede. Hoffa è spumeggiante, fine calcolatore e amante della strategia, financo avvezzo a tecniche di tipo “seduttivo”, pur di imporre il suo punto di vista. Anche Frank ne subisce il fascino, finendo per diventarne il guardiaspalle, oltre che fido consigliere. Diventare anche il suo miglior amico è lì giusto a un palmo di naso.
Ecco, l’aggettivo esatto è “filmone”. Tre colossi del cinema che si muovono trasversalmente agli United States facendo sfoggio del loro etereo aplomb di attori fuoriclasse. E il loro viaggio attraverso le varie sequenze della pellicola vanno a intingersi direttamente nell’immortalità che attiene al loro modo di far cinema, mostrando consuete e quasi inarrivabili capacità attoriali.
‘The Irishman’ è un tuffo nel mondo dei gangster molto profondo, quasi frutto di una malcelata nostalgia di poterne promuovere l’elegia che ha portato a scolpire nel marmo film come “Il Padrino”: analisi intima e ampia, che stratifica progressivamente tutto quanto sappiamo sul mafia movie fino a una meritevole compattazione, che riapre una luminosa finestra sul cinema di Martin Scorsese, oltre che sull’abilità recitativa di tre mostri sacri del grande schermo finora mai apparsi tutti e tre insieme.
De Niro (Sheeran) capitalizza sulla sua abilità di aprire spiragli nella maschera indecifrabile di un uomo qualunque; Pesci (Bufalino) gli fa a gara in sottrazione, contraddicendo la sua reputazione di show off; e Pacino (Hoffa) controlla i toni enfatici a favore di un’irresistibile bonomia.
Che l’intento di Scorsese fosse quello di costruire un’anti ”Quei bravi ragazzi” è dichiarato fin dal primo, magnifico piano sequenza, che rispecchia (al contrario) il leggendario “Copa shot” del suo capolavoro del ’90. La cinepresa si addentra lungo i corridoi di una casa di riposo fino a stanare Frank, ormai anziano e confinato ad una sedia a rotelle, che inizia il suo racconto in voce fuori campo (come l’altro irlandese prestato alla mafia in ”Quei bravi ragazzi”) per spiegare a noi e a se stesso (non senza licenza poetica) “come cazzo è iniziato tutto questo”.
Dentro Frank c’è Henry Hill, ma anche il Noodles di ”C’era una volta in America” e il Tom Hagen de Il ”Padrino”, estranei ai legami di sangue dei mafiosi appartenenti alla “stessa razza”. Ci sono i temi più cari a Scorsese – colpa e redenzione – all’interno di un personaggio sempre presente a se stesso, ma così imbevuto della cultura della sopravvivenza e della sopraffazione da ritenersi escluso dal perdono, e immancabilmente costretto a fare ciò che va fatto perché “è così e basta”: il che significa “Così si compie il fato”. ‘The Irishman’ è una tragedia greca in cui compaiono la predestinazione (dei mafiosi), l’hybris (di Hoffa), la preveggenza di Cassandra (Peggy, la figlia di Frank) e un tradimento doloroso che rimanda a Bruto ma anche a Giuda: siamo fra cattolici italiani e irlandesi, dopotutto.
‘The Irishman’ è una lectio magistralis di cinema che ci fissa ai braccioli della sedia per tre ore e mezza e con il più efficace dei chiavistelli. Coraggiose sequenze, una sceneggiatura articolata ma sagomata per restare del tutto digeribile ancor prima che comprensibile; merito di Steven Zaillian (dall’autobiografia romanzata di Sheeran scritta da Charles Brandt).
Assolutamente degni di nota l’evocativa fase fotografica dell’ottimo Rodrigo Prieto e il sontuoso montaggio di Thelma Schoonmaker; da manuale le prime battute scambiate fra Frank e il suo avvocato, dove i voluti tagli e i continui cambi di inquadratura recidono di continuo le convenzioni del campo e controcampo.
Scorsese tiene a freno tutto ciò che in passato (anche recente, vedi ”Wolf of Wall Street”) è stato la sua cifra distintiva: il ritmo adrenalinico, le botte a ritmo di musica, le carneficine in piena vista, l’allure romantico del crimine; una sparatoria in un negozio di barbiere si trasforma in un elegante movimento di macchina che entra ed esce posandosi su un mazzo di fiori, lasciando ad una foto “alla Weegee” il gusto di mostrare il cadavere.
La visione “moraleggiante” è del tutto riposta nei frangenti inerenti le interpretazioni femminili. Sgomento, disappunto, senso di ripulsa, esibiti con sopraffina sagacia, diretti ed efficaci, dritti fino alle pupille dello spettatore conquistato, senza gli orpelli e i fronzoli della passiva e supina accettazione che a volte si esagerava nell’attribuire alla silenziosa complicità della “femmina del padrone”; il punto di vista del regista è invece di chi prende atto ma non giustifica, e di un uomo di 76 anni che guarda alla sua vita e carriera con nostalgica delicatezza e grazia clemente.
Il finale profuma di refolo di speranza: e, come scriveva Alphonse Karr, “la vita si divide in due parti: speranza e rimpianto”.
Dialoghi da antologia e un’ironia dosata e mai dissonante completano il quadro di uno splendido spaccato dell’epoca, in uno all’impassibilità con la quale i compaesani (i “cumpà”) narrano la Storia in perenne contrapposizione con quella parallela cui accenna boriosa “Cosa Nostra”.
Al punto che, e precisiamo che trattasi SOLO di Cinema (in tal caso, con la C maiuscola), quasi si tende a fare il tifo per le vicissitudini e le reciproche rimostranze di entrambe le fazioni.
Basta non fare lo stesso errore quando si esce dalla sala.
Perché, fuori dallo schermo e dai teli neri, la malavita è sempre la peggior cosa in cui si possa incappare.