“Il genere umano è felice solo perché pensa di essere solo nell’universo!”, diceva Tommy Lee Jones a Will Smith nel primo capitolo di “Men in Black”.
Solo che a volte la solitudine è quel sentimento capace di avvinghiarti pure quando sei un autorevole cittadino degli Stati Uniti. Vale a dire 326 milioni di anime vaganti a mò di pendolo nell’alveo del bipolarismo più famoso – e, forse, strutturato – del pianeta. E lo sa bene anche Mark Felt, alias Liam Neeson, in qualità di vicedirettore della FBI nel 1972. Un attore, Neeson, che stupisce a ogni pellicola, laddove in grado di vestire dei panni del protagonista d’eccezione con una camaleonticità che nessuno può negare. Schlinder’s List docet. Repubblicani e democratici. Chest’è, negli United States. Se non è zuppa è pan bagnato. Come giocare sempre con lo stesso mazzo di carte dotato di due soli semi.
Il film è tratto da una storia vera, com’è ovvio al netto di ogni contenuto adattamento cinematografico. La trama, paradossalmente, pur prevedendo un incrocio di misteri e contro-misteri in perenne triangolazione fra Casa Bianca, Cia e Fbi, è molto semplice. Qualcuno vuole insabbiare rilevanti questioni sul Watergate, a beneficio della rielezione dell’allora presidente Richard Nixon. Il Federal Bureau of Investigation, ovviamente, indagava. Tuttavia, nel frattempo, e manco a farlo apposta, bisogna nominarne il nuovo capo, laddove John Edgard Hoover saluta questo mondo dopo averne retto per 37 anni la guida. Per logica, non si dovrebbe che passare all’immediata nomina del meritevole e rispettato (quanto temuto, in forza della sua specchiata integrità) vicedirettore. Macchè. Non è mica così che andrà. W la meritocrazia.
Con un colpo di mano, è Pat Gray (interpretato dall’ottimo Marton Csokas, l’inquietante sicario psicopatico di The Equalizer con Denzell Washington), che ce l’ha scritto in faccia di esser manovrato dalla Casa Bianca, ad assumerne il comando. E come mai? Indovinate un po’. Perché qualcuno dall’alto, ma molto in alto, ce l’ha calato come una frittella nell’olio bollente. E’ lui il nuovo capo. Mark Felt assorbe il colpo di malagrazia ma con assoluta dignità; la sua integrità lo induce a leccarsi rapidamente le ferite e a rispettare il mandato. Si fa carico di coadiuvare l’azione del neo-direttore, adottando ogni premura per cercare di veicolarlo sui giusti binari e di metterlo in guardia. Del resto, l’FBI è come le rapide. Se non sei attrezzato, prima o poi, la corrente ti fa sbattere contro una roccia appuntita, posto che mai nessuno ti invierà una scialuppa di salvataggio. E’una scacchiera dove sarai sostituito con altro alfiere, nessuno sembra valere il costo della riabilitazione.
Il Vice-Direttore, pur lacerato nell’animo e sentendo puzza di bruciato, decide di guardare avanti. Ha un ruolo preciso. E resta assoluto punto di riferimento. Tutto ciò, fin quando (e non mi va di spoilerare) lo stesso Felt non si accorge, magari una volta di più, che non c’è alcuna trasparenza in tutto quel che gli sta accadendo intorno. Anzi, la ragnatela ordita dal grande architetto ha un unico e non virtuoso scopo: calare il sipario su quel calderone bollente che potrebbe comportare un ribaltamento negli equilibri politici del paese; specie quando, come sempre si sente pronunciare nelle pellicole anglofone e/o americanofone d’oltreoceano, si tratta di “questioni di sicurezza nazionale”. E Felt viene assalito da un gigantesco conflitto interiore. Si tratta di un rospo troppo grosso da ingerire. E non riesce a fare a meno di escogitare. La moglie Audrey, una tal Diane Lane, gli sta vicino; e, pur sapendo che il marito non può dirle tutto, svolge il suo ruolo di supporto con rispettoso contegno. Come al solito, è il tema del DOVERE a essere sotto i riflettori. L’eterno conflitto fra quel che è giusto e quel che va fatto. La consapevolezza che, a così alti livelli, basta davvero un nonnulla per passare da predatore a preda.
Il potere, come quell’ombra densa che non vedi ma di cui avverti il peso e la sostanza.
Il tradimento come unico possibile deterrente a evitare che l’altrui gioco sporco possa prosperare e dare frutti; saporiti, per di più, solo al palato di quei pochi che hanno la scala giusta per salire su quell’albero le cui radici sanno innervarsi solo nel torbido terreno della macchinazione. Parliamo di livelli altissimi, di ruoli rilevanti e onorifici. Che si nutrono dell’immenso rispetto altrui, per quanto parimenti oberati da oneri talvolta insostenibili con le sole proprie forze. Come guidare un’auto potente, ma su una strada piena di bivi. E inevitabilmente accade che, almeno una volta nella vita, ove non si sia optato per il silenzio, bisogna compiere una scelta coraggiosa. E ci si prepara nel tempo ad accettarne le conseguenze. Quando i nodi verranno al pettine, stanne pur certo, verranno a cercarti. E ogni processo verrà istruito per addossarti almeno 5 volte le tue reali responsabilità. Il risultato? Passerai il resto della vita a discolparti. O, quantomeno, a cercare di attenuare il livello delle accuse, in attesa di una condanna della quale conosci le sfumature ma quasi mai la reale entità. La giustizia, da secoli, vuole sempre un colpevole. Anche quando questi non veste dei panni di quello vero o di colui che è realmente il fulcro della magagna. Paradossalmente, in tal senso, possiamo quindi dire che Barabba è stato un uomo fortunato.
Adoro questo tipo di film, soprattutto perché è un modo per sentirmi meno ignorante in materia di “equilibri politici”.
The Silent Man poi, rispetto a pellicole variamente elaborate e di analogo tenore quali Il Caso Spotlight, ha un pregio.
La semplificazione dei dialoghi, la loro riconduzione nell’alveo del comprensibile. Virtù di non poco conto, specie a fronte di quella filmografia di genere che, in una sorta di autocompiacimento descrittivo, privilegia l’estensione e il numero di sezioni dialogate a scapito della loro intelligibilità. Non vi nascondo che, io stesso, nonostante disponga a casa di valenti risorse audiovisive, spesso devo “riavvolgere” per dipanare quelle che a volte non sembrano dialoghi ma articolati farfuglii. Il Cast è eccezionale. Non tanto dal punto di vista dei nomi (Tony Goldwin di Ghost, Tom Sizemore di Pearl Harbor e USS Indianapolis sono attori eccellenti, ma che non rinvenite dell’Olimpo dei celeberrimi) quanto per la potenza espressiva degli attori. Ognuno gioca le sue carte, dando luogo a momenti di assoluto pathos.
Anche quando appaiono per minutaggi a dir poco contenuti. Cito ad esempio il versatile caratterista Eddie Marsan (il cattivone ladruncolo che Hancock si trova costretto a rendere moncherino; ma del quale, in particolare, mi piace ricordare la toccante interpretazione in Still Life). Un attore polivalente, con un ruolo di assoluto rilievo anche in Deadpool 2 di Ryan Reynolds.
In The Silent Man si limita a offrire, in un breve cameo, tutta la sua enorme espressività; benché di profilo e pigramente seduto su una panchina, fugacemente allestita come confessionale a beneficio di uno sconcertato Mark Felt. La sensazione, alla fine della scena, è che sul monitor del televisore sia rimasto un alone. Quello della classe.
Davvero di altro livello. Ad avercene, in Italia.
In proposito, il mio accorato appello attende sempre ben volentieri che dall’altro lato, magari con il megafono dei fatti, qualcuno possa dimostrarmi d’aver torto.