Un guasto, o qualcosa di simile… sapevo di rischiare molto a non impostare una data precisa sul display della Macchina del Tempo, eppure l’ho fatto. Vorrei potervi dire dove e quando siamo, ma stavolta dovremo scoprirlo insieme, perché pare che la nostra super vettura oggi si sia messa a fare le bizze.
Ciò che posso dire è che avevo scritto qualcosa tipo “canzoni contro la guerra anni ’60”, nella speranza di poter incontrare, che ne so, Bob Dylan o alla peggio (ne sarei stato felice ugualmente eh!) Gianni Morandi. Non credo abbia funzionato.
Davanti a me campagna a perdita d’occhio. Alcune sinuose colline quasi si fondono con l’azzurro del cielo, segnando un tenue orizzonte alle mie spalle. Davanti, invece, si fa più netto, perdendosi lungo una vallata in leggera discesa. I riflessi dorati del grano, quasi pronto per la mietitura, fanno supporre sia fine maggio, ma stavolta non ci sarà nessun giornale da poter comprare per stabilire una data e un luogo.
L’assurdo in questo viaggio ha inizio quando al centro del campo scorgo un letto matrimoniale. Faccio per avvicinarmi e sobbalzo quando capisco che distesa lì sopra c’è una donna. L’istinto sinceramente sarebbe quello di tornare alla Macchina, ma la curiosità è troppa e magari scopriremo dove siamo. Piange, mentre stringe al petto una medaglia. “Tutto bene?”, le chiedo goffamente. Nessuna risposta, se non un pianto sommesso e continuo. Poi, come stanca, ripone l’oggetto sul cuscino accanto al suo e s’addormenta. Prima di allontanarmi faccio in tempo a gettare un occhio sul cimelio: “Alla memoria del valore militare di…” non si legge più nulla, il nome è incomprensibile, ma è chiaro che questa ragazza ha perso l’amato in guerra. Il soldato morto è un Eroe, riconosciuto ufficialmente con tanto di medaglia al valore. Eppure qua non c’è nessuno a consolare il suo amore, neppure io, costretto come sono ad abbandonarla al pianto e alla sua inutile medaglia. In una ideale battaglia tra affetti e onori, pare si siano affermati i secondi, l’oro delle medaglie però è destinato a dimenticare i nomi delle persone. Io non posso nulla, se non continuare nel viaggio.
Poche decine di passi e finalmente, col sole meno puntato in faccia, riesco a distinguere in lontananza una casetta, chissà, magari è la volta buona! Entro e la sorpresa è ancora maggiore di quella precedente, perché la scena è surreale: nel camino arde un gran ceppo e di fronte ad esso un’altra donna, inspiegabilmente vestita con abiti invernali, sta filando della lana. È la donna più vecchia che abbia mai visto, sembra abbia centinaia di anni. “Buongior…”, mi interrompe prima che riesca a porgerle un saluto: “Sono tornati a centinaia, forse migliaia. Tornerà, tornerà anche lui dal fronte, ne sono certa. E smetterò di sentire questo freddo!”. Sopraggiunge un’altra vecchia, sembra che lei possa vedermi: “È morto”, poi, indicando l’altra e scuotendo il capo, aggiunge: “Non se ne farà mai una ragione”. Provo a chiedere alla nuova arrivata delucidazioni, ma nulla. Ripetono entrambe la triste scena. Devo scappare da qui dentro, c’è un caldo asfissiante.
Diamine ragazzi, questa settimana sono completamente spaesato, sembra che siamo capitati in un qualche tipo di “non-luogo” popolato da personaggi surreali. Ne ho abbastanza, credo sia il caso per tutti di tornare alla Macchina, qua non riesco a parlare con nessuno e i pochi che incontro piangono morti! Questa anziana pareva distrutta da un’altra dialettica riconducibile alla guerra, non affetti-onori come la sposa di prima, ma forse la più ovvia: vita-morte. Anche su di lei la guerra ha imposto la vittoria della seconda opzione.
Aspetta ma… è proprio questo che avevo scritto sul display! Forse la nostra Macchina non è guasta!
Mentre corro per il campo, ora che qualche barlume di chiarezza inizia a farsi strada, mi imbatto in un ragazzo. Indossa una divisa da soldato, l’elmetto e il fucile sono invece appoggiati a terra. Lui, seduto con la testa tra le mani piange a singhiozzi forti. Gli poggio una mano sulla spalla, arrivando da dietro. Salta in piedi e fa per recuperare la sua arma, ma capisce immediatamente che non sono un nemico. Ho capito che non servirà a nulla porgli una domanda, al massimo potrò ascoltare la storia che avrà da raccontare. “Lo dovevo fare”, ripete mentre tira sù col naso tentando di domare il pianto. “L’avrebbe fatto lui altrimenti. Io m’ero nascosto per non farmi vedere, era un po’ che ce lo avevo nel mirino… io… poi m’ha visto… non volevo… lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto lui”. La voce gli si rompe ancora, mentre indica un punto in mezzo al grano dove il colore dell’oro è macchiato di una chiazza rossa. Da quaranta metri sembrano papaveri rossi al sole, avvicinandomi, invece, diventa chiaro che i cereali non sono tinti da fiori, ma da una pozza di sangue, al centro della quale giace un ragazzetto. La divisa è quella di un altro esercito. Anche qui nessuna moltitudine o esercito, nessuna istituzione. Ci sono solo due individui. Adesso ho finalmente capito dove sono. So già che se troverò il coraggio di leggere la targhetta metallica del cadavere, vi troverò inciso il nome di Piero, perché sono finito dritto dentro tre canzoni di Fabrizio De Andrè. “Canzoni contro la guerra anni ’60” avevo scritto, ed eccomi qua, la Macchina funziona benissimo, non sapevo potesse fare anche questo.
Non siamo in un luogo dunque, né in un tempo. Siamo oltre, siamo nell’eternamente presente e valido, questo è lo stesso mondo dove potremmo incontrare Ulisse, Achille, Antigone, Edipo, gli animali parlanti delle favole o i filosofi che si scambiano domande durante il passeggio.
Sì, alcuni eventi, grazie alla potenza dei messaggi che diffondono, spezzano le catene spazio-temporali che li agganciano alla storia, diventando, diciamolo con un termine figo e difficile, metastorici. Lo spiego più terra terra: alcuni eventi scavalcano le barriere del quando e del dove, per diventare un modello sempre valido, un monito, un insegnamento.
Nella sottile terra di confine che separa la letteratura dalla musica (almeno dalla parte più impegnata dal punto di vista letterario della musica), può succedere che anche una semplice canzone possa sganciarsi dall’episodio che racconta, per assumere un carattere universale e un valore, altro termine difficile, paideutico (terra terra, paideutico sta per educativo). Ciò vale sicuramente per l’opera di Fabrizio De Andrè, che amava definirsi un cantastorie.
Della guerra Faber ha parlato molto, ad esempio in “La ballata dell’Eroe” (il primo incontro che abbiamo fatto), in “Fila la Lana” (il secondo) e nella famosissima “La Guerra Di Piero”, il povero ragazzo giace nel grano perché ha tentennato davanti all’idea di uccidere un suo simile.
Non è semplice antimilitarismo, queste canzoni di De Andrè sono affreschi di drammi derivanti dalla guerra. La sua inutilità ed il rigetto della violenza sono temi inscritti in un cerchio ancor più grande, in cui è possibile racchiudere l’intera produzione di Fabrizio: l’irrisolvibile antinomia tra il singolo e i molti, tra l’individuo e la società. Oppure, trasposto su un altro livello, tra una società minoritaria e una dominante.
Alle spalle dei personaggi che abbiamo incontrato oggi c’è sempre una moltitudine, con la quale i singoli sono costretti a confrontarsi continuamente, e lo fanno sistematicamente a proprie spese. Vittime di ingiustizie, discriminazioni, giudizi di una morale spesso farlocca ma in ogni caso dominante. O peggio ancora, se è possibile, vittime di atroci follie come la guerra, decisa dalle Nazioni ma per la quale a morire sono le singole persone.
Oggi il viaggio è stato duro e difficile, come sempre accade quando viene richiesto un esercizio del pensiero.
Prima di tornare a casa, permettetemi di abbracciare il soldato che ha ucciso Piero. Gli dirò che abbiamo capito, noi di là, che vittima è pure lui.
*l’opera in foto è dell’artista Maurizio Carnevali.