Irriverente, tagliente e diretto, ma al tempo stesso, fragile, sensibile e geniale. Non è semplice definire la personalità di uno dei più grandi scrittori americani, Truman Capote, dopo tanti anni dalla sua prima pubblicazione, il romanzo “Colazione da Tiffany” del 1958 e “A sangue freddo” del 1966, che l’autore definì il romanzo verità. Una interessante chiave di lettura è quella proposta da Massimo Sgorbani che disegna per Gianluca Ferrato il monologo “Truman Capote. Questa cosa chiamata amore”, al Teatro Piccolo Bellini di Napoli, fino all’8 marzo 2020.
Per comprendere il personaggio pubblico e lo scrittore americano bisogna percorrere una strada a ritroso partendo dalla sua infanzia. Egli superò una esistenza segnata dal divorzio dei genitori, da una lunga assenza da parte della madre che gli faceva visita occasionalmente, e da un padre che non diede più sue notizie per molti anni e ricomparve quando Truman divenne uno scrittore famoso negli Stati Uniti. Studente eccellente, venne isolato e deriso a causa della sua omosessualità e della sua prorompente fantasia. Trasferitosi a New York, in seguito al secondo matrimonio della madre, che disprezzò apertamente, assunse per ripicca il cognome del patrigno, Joe Capote. La sua vocazione per la scrittura gli fece ottenere un successo di critica grazie al racconto “Miriam” (1945), che attirò l’attenzione dell’editore della “Random House”, Bennett Cerf, che gli offrì un contratto per scrivere il romanzo “Altre voci, altre stanze” (1948). Da allora iniziò a frequentare i salotti mondani di New York, vestendo i panni dell’intellettuale dandy e divenendo ben presto amico di personaggi famosi, tra cui Jackie Kennedy, Humphrey Bogart, Ronald Reagan, Andy Warhol, Ernest Hemingway, Marilyn Monroe e Tennessee Williams. Un carattere difficile ed irriverente aggravato agli occhi della società da una omosessualità mai nascosta, lo portarono per tutta la vita ai limiti dell’eccesso.
Il titolo “Truman Capote. Questa cosa chiamata amore” è la traduzione della canzone “What is this thing called love” di Cole Porter, ed ha un ruolo significativo nella pièce teatrale. Gianluca Ferrato interpreta un protagonista dello star system dalla vita complicata, caratterizzata dall’ascesa e dal declino. La scelta di portare a teatro il famoso scrittore è nata dalla visione di due grandi interpretazioni cinematografiche, di Philip Seymour Hoffmann in “A sangue freddo” del 2005, che gli valse l’Oscar, e “Una pessima reputazione” del 2006 con Tobey Jones e Sandra Bullock.
Attraverso il monologo, il pubblico ricostruisce l’atmosfera e le sensazioni dell’America di quegli anni, contraddistinta dalla paura e dalla attrazione per il “diverso”, e dallo scetticismo della società nei confronti delle novità. Il raggio d’azione si sposta sulla figura di Truman, sul suo aspetto psicologico, sul dissidio interiore: da una parte la lotta contro i suoi demoni, alcolismo e tossicomania, e dall’altro, la ricerca di quel consenso dalle celebrità che si trasforma in ripudio.
Ferrato riesce a far emergere una personalità poliedrica: dandy, cinico e perduto. E’ un monologo di 80 minuti incentrato sia sul personaggio e sia sullo scrittore Capote, caratterizzato da una disperata vitalità, dal gusto per lo sberleffo e da una infinita malinconia. Una interpretazione intensa e appassionata che commuove, imbarazza e fa sorridere il pubblico. Non vi è nulla di ridicolo nel suo personaggio, bensì la consapevolezza di immedesimarsi nelle vesti di un grandissimo scrittore, coraggioso e anticonformista, che ha avuto una vita straordinaria pur avendo sofferto molto.
Di forte impatto emotivo sono alcune scene dello spettacolo, di un “ideale incontro” con Perry Smith, l’assassino che lo scrittore intervistò per il suo romanzo “A sangue freddo”, del ricordo del suicidio della madre e del ballo in maschera “Black and White” al Plaza Hotel di New York nel 1966.
Non mancano le celebrità con cui Capote ha avuto rapporti di amicizia, ma al tempo stesso di contrapposizione: Marylin Monroe, i fratelli Kennedy e tanti altri che riempivano il vuoto dello scrittore, ma da cui prende le distanze. Si allontana dal mondo patinato, si sente di non appartenere più a quell’ambiente e, attraverso la sua “arma”, la scrittura, pubblicò la sua ultima opera, “Preghiere esaudite”, un collage di testimonianze, voci, ricordi individuali e pubblici per raccontare la realtà dei personaggi ricchi e famosi. L’intero jet-set newyorkese lo bandì per sempre e venne emarginato da tutti.
La regia di Emanuele Gamba accompagna la scena iniziale giocando con luci e suoni che rievocano l’atmosfera degli anni Quaranta, un ambiente dallo struggente minimalismo Art-déco che pian piano si evolve e si sposta dalla natia Louisiana alla New York degli anni ’60. E’ uno spettacolo che innesca nella platea del teatro sentimenti contrastanti: un ritratto di Capote, senza artifici e senza filtri, puro, vero e diretto, messo ai margini da una società ipocrita e spietata. Un mondo delle celebrity che il pubblico ammira e di cui conosce soltanto l’apparire, ma non l’essere. Una vita estetizzante e distruttiva che lo accomuna allo scrittore irlandese Oscar Wilde (1854-1900), di cui è recente lo straordinario spettacolo, “Atti osceni. I tre processi a Oscar Wilde” al Teatro Bellini di Napoli.