Fondatore della storica band New Trolls, assieme alla quale è stato uno dei fautori originari del rock progressive italiano Vittorio De Scalzi ha segnato la musica italiana, sia come cantautore che come autore per tanti altri artisti del nostro paese. Il 15 magio celebrerà i cinquant’anni della sua folgorante ed eclettica carriera, con un concerto-spettacolo al teatro San Carlo di Napoli. Tanti sono gli ospiti previsti per l’evento, tra i quali ricordiamo Gino Paoli, Patty Pravo, Katia Ricciarelli, Zibba. Nell’attesa dell’evento abbiamo ripercorso assieme a lui questo straordinario percorso
Lei è stato uno dei protagonisti della scena musicale italiana negli ultimi cinquant’anni. Ma come è iniziato il suo percorso? Come si è avvicinato alla musica ,e quando ha capito di voler fare della sua passione un lavoro?
Come tutto è cominciato? Non lo so. Mia madre suonava il piano forte, in casa c’era sempre tantissima musica. Ricordo però il giorno in cui sono andato ad ascoltare i Beatles, che erano venuti qui a Genova: sono uno dei pochi privilegiati che erano lì in prima fila. Quando sono tornato a casa mi sono detto “devo fare un gruppo anche io”. Ero molto giovane, però qualche anno dopo ce l’ho fatta e ho fondato i Trolls, e poco dopo i New Trolls. Con il gruppo abbiamo passato momenti dal beat al rock progressive, però ho sempre avuto anche un’anima da cantautore, della scuola genovese.
Ricordo che il battesimo dei New Trolls è stata un’occasione importantissima, che fra l’altro aveva trovato mio padre: aprire i concerti dei Rolling Stones! Da lì è cominciata una serie di esperienze musicali che mi hanno portato fino ad oggi, sulle ali dell’entusiasmo. Tanto che non mi sono nemmeno accorto che eran passati 50 anni. Non mi sembrano nemmeno 25.
Quindi tutto è iniziato non per caso, ma anzi grazie a una forte passione
Assolutamente. Per fortuna ho anche avuto questo imprinting casalingo. E in più mio padre, che era un grande ristoratore, mi ha appoggiato: ha comprato la prima amplificazione dei new trolls, ci ha trovato i primi contratti… Ed era difficile allora trovare un padre che, se tu gli dicevi “voglio fare il cantante”, non rispondesse “vai a studiare vai”. Invece lui mi ha assecondato, e ha sostenuto anche i miei studi musicali, per questo mi ritengo un fortunato.
I suoi esordi si collocano in piena epoca beat. Qualche tempo fa ne ha parlato come ospite anche nella trasmissione Rockfiles, di Ezio Guaitamacchi. Ma cos’era la beat generation?
In realtà musicalmente la beat generation l’abbiamo vissuta non molto intensamente perché siamo passati in fretta al prog, che ci sembrava molto più impegnativo. La beat generation è stata più americana che italiana: da noi arrivavano gli echi delle ueltime cose. La cosa che mi piaceva era questa cultura underground, da Ginsberg a Kerouac, però non riuscivo a tradurla in musica perché noi in Italia avevamo un retaggio culturale diverso, lontano.
Oggi è più facile, c’è la rete che accomuna tutti: è una grande piazza dove se uno fa un sussurro a New York lo sentiamo immediatamente anche qui. Allora invece le cose arrivavano con anni di distanza. Lo stesso movimento del ’68 noi lo abbiamo avuto tardi, e anche un po calmierato.
È qualcosa a cui tuttavia mi sento legato: proprio il 7 maggio aprirò il concerto di Patti Smith, e porterò un pezzo di Lou Reed, per altro. Allora però ero molto più giovane e l’ho apprezzato molto tempo dopo, ecco. Allora mi bastavano le canzoni.
E il progressive invece…?
Il progressive è stato molto più sentito, più calcolato. Partimmo da questa grande idea di Sergio Bardotti, il nostro produttore di allora, insieme al maestro Luis Bacalov – che qualche anno dopo si è preso anche un oscar per la musica del film “Il postino”. L’idea era quella di fondere la musica classica con la musica rock. Tutto è nato grazie a un film che si chiama “La vittima designata”, per il quale Bacalov si stava occupando della colonna sonora. Il film si svolgeva a Venezia, e aveva quindi un’atmosfera barocca. Però la trama era “rock”, una specie di suicidio su commissione. Un tizio pagava un killer per farsi ammazzare. Molto rock. Così ci venne l’intuizione di fondere i due generi dal punto di vista musicale, la musica barocca con il rock’n’roll: era nato il concerto grosso per i New Trolls, che ancora adesso, a distanza di tanti anni, mi porta in giro per il mondo. E sto parlando del 1971, quindi sono più di 40… A ottobre per esempio vado a Manila, ma per merito del concerto grosso continuo a fare tournée anche in Korea, in Giappone...
Il 15 maggio al San Carlo di Napoli festeggerà i suoi 50 anni di carriera. È cambiata molto la musica italiana in questo periodo? In che modo?
È più la scena ad essere cambiata, perché la musica è sempre la stessa. Io ho una teoria: il modo di scrivere è sempre quello, ciò che cambia è il contorno, il vestito, cioè gli arrangiamenti, il modo di suonare la batteria, l’uso del basso. Quello sì cambia moltissimo.
Ma soprattutto quello che a me manca come terreno sotto ai piedi è che non c’è più il disco, non c’è più un supporto fisico. Questa cosa mi spiazza, perché il disco era un punto fermo. Ce l’avevi fra le mani e avevi prodotto qualcosa: avevi prodotto un disco.
Oggi no, oggi hai prodotto una musica, una canzone, che non è proprio la stessa cosa: io mi ricordo che ai tempi, quando usciva un disco nuovo, nella compagnia uno andava a comprarlo e noi altri andavamo tutti a casa sua. E in religioso silenzio si metteva su il disco, si inseriva la testina, il giradischi si avviava… e poi si ascoltavano tutti i brani dell’album, per commentarli alla fine. Già questo rito ti predisponeva all’ascolto. Oggi ti arriva un mp3 sul telefonino… È cambiato molto in quel senso l’approccio.
Chiaramente c’è musica bella e c’è musica brutta anche adesso. Siccome ce n’è molta di più di musica è più facile trovarne tanta brutta. Però quella bella c’è.
Insomma la dematerializzazione ha eliminato dei riti che facevano parte della musica….
Si, e a me quello manca molto devo dire. Bisognerebbe inventarsi di nuovo un supporto fisico. Magari diverso: una pallina, qualche cosa così…
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Un bel disco nuovo. Ho già un singolo fuori, che è uscito da una settimana e che si chiama L’attesa. Il produttore è il mio amico Zibba, uno dei cantautori della nuova generazione ligure al quale mi lega una stima reciproca. Lui è il mio ponte, il mio trait d’union con le nuove generazioni, per quanto riguarda gli arrangiamenti. Ha un tipo di cultura molto più vicina ai giovani, ma devo dire che i nostri due approcci si sono fuse in un buon prodotto, e stiamo lavorando per uscire in autunno con un album.