C’è un momento, una volta l’anno, in cui il tempo si ferma e tutto si azzera: è quando Vasco sale sul palco e Napoli si accende. Due serate allo stadio Maradona che restano stampate nella memoria, un appuntamento con il rock più puro, quello che ti fa dimenticare pressioni, pensieri e stanchezze, e ti catapulta in un abbraccio collettivo di musica, sudore ed emozioni. Vasco è questo: un rito, un richiamo, un fuoco che brucia dentro. E a 73 anni suonati, continua a regalarci tutto se stesso, perché lui il rock ce l’ha nel sangue, nelle ossa, nell’anima.
Per questo tour ha deciso di partire col botto: Vita Spericolata come apertura, e via… due ore e più di canzoni, parole e note sparate dritte al cuore. Il caldo è torrido, ma nessuno si ferma: si balla, si canta, si urla, ci si stringe, ci si perde e ci si ritrova. Un’unica, gigantesca voce che si leva da Fuorigrotta e squarcia il cielo come una stella cadente, lenta, che illumina la notte prima di svanire.
Le canzoni scorrono come un fiume in piena. Vecchie storie che sembrano scritte ieri, perché Vasco ha questo dono: sa leggere la gente, sa raccontare il mondo con uno sguardo amaro e lucidissimo, sa fotografare la realtà sperando – e facendo sperare – che un giorno qualcosa cambi davvero. E mentre alterna brani del passato e pezzi più recenti, il Blasco gioca col suo popolo: lo provoca, lo invita a cantare, lo abbraccia con la voce e con gli occhi. Perché Vasco senza il suo pubblico non sarebbe Vasco. E il suo pubblico senza Vasco non sarebbe lo stesso.
E così, ancora una volta, il concerto diventa energia pura. Non c’è età che tenga: dai ragazzi di vent’anni ai fan storici che di concerti ne hanno visti a decine. È una combriccola, una famiglia allargata che attraversa l’Italia inseguendo la sua voce, ritrovandosi in ogni strofa, in ogni nota, in ogni rituale che si ripete e si rinnova. Quando parte Rewind, i reggiseni volano come da tradizione. Su Senza rimpianto il pubblico diventa un gigantesco coro a cappella, e lui che li incita, sorride, ringrazia. E poi Diego Spagnoli, lo storico direttore di palco, che presenta la band prima del gran finale con Canzone e Albachiara: una carezza, una promessa, un arrivederci che sa di “ci vediamo presto”.
La scaletta? Un inno alla vita, come Vasco stesso dice. Dentro ci mette tutto: Sono innocente ma…, Manifesto futurista della nuova umanità, Buoni o cattivi, C’è chi dice no, Senza parole, Sally, Siamo solo noi. E poi un medley che tocca Una canzone per te, Va bene, va bene così, e perle più rare come Valium e Il tempo crea eroi. E quando attacca Gli spari sopra, la dedica è per “tutti i farabutti che governano questo mondo”. Parla di pace, si prende i suoi momenti per respirare, ma ogni volta torna sul palco con un’energia che sembra nuova, come se la traesse direttamente da quell’oceano di volti che lo guarda e lo ama.
E se ancora ci fosse qualcuno che vuol mettere in giro storie su Vasco e i napoletani, ieri sera ha avuto la risposta definitiva. Ringrazia la città, fa i complimenti per lo scudetto, celebra lo stadio dei campioni d’Italia: “Napoli siete gente di passione, sono felice di essere in questo stadio che è dei campioni d’Italia, complimenti, complimentissimi” rendendo omaggio a un gigante, Pino Daniele, con una versione da brividi di Je so pazzo. Perché sì, Vasco è pazzo. Pazzo di quella passione che solo Napoli sa regalare. E noi, tutti noi, un po’ pazzi con lui.