Da qualche parte
nella penisola arabica,
nell’anno 70 dell’Egira
Farid ibn’Azîm si fermò un attimo a riposare. Aveva le labbra secche ma non voleva sprecare la poca acqua rimasta nella ghirba di cuoio che pendeva dal fianco dell’asinello. Certo non aveva immaginato che la roccia a forma di uccello si fosse trovata così addentro nel deserto, eppure il vecchio l’aveva avvertito:
– È lontana, figliolo, troppo lontana perché tu decida di metterti alla sua ricerca se non sei veramente deciso a conoscere la verità. Forse è meglio che lasci perdere…
– Devo sapere, harif, non posso vivere con questo dubbio.
L’uomo si era girato verso la città, a oriente, coprendosi la parte inferiore del viso col burnus, in un largo gesto che sembrava volerlo proteggere dai mulinelli di polvere sollevati dal vento. In realtà stava solo nascondendo il sorriso triste che gli increspava le labbra.
– Guarda laggiù, ragazzo, in città ci sono migliaia di uomini innamorati e di donne che piangono sui loro sogni, ma nessuno è così pazzo da voler cercare la verità sull’amore… Si accontentano di quello che si racconta nelle leggende, di quello che credono di capire sulle loro donne. A volte hanno delle delusioni, altre volte sono trascinati in cielo dalla passione e conoscono un po’ di felicità.
E continuano a vivere, sicuri di trovare prima o poi la pienezza, la soddisfazione totale dei loro desideri e chissà che non finiscano per avere ragione. Forse puoi trovarla anche tu, se sei abbastanza paziente.
– Non saprei cosa cercare… Venerabile harif, potrei incontrare la felicità e non riconoscerla.
– É dunque la felicità che cerchi? non la verità?
– Cerco la verità ma, quando la stringerò nelle mani, fra le mie dita resterà anche la felicità.
– La verità potrebbe non piacerti.
Farid non voleva affrontare quest’aspetto del problema, non in quel momento, almeno, quindi cercò di cambiare discorso.
– Questa verità di cui parli sarebbe la stessa per gli uomini e per le donne?
– L’amore fra un uomo e una donna è un rapporto dualistico. Anche se tu potrai permetterti tre mogli troverai cose diverse in ognuna di esse e amerai ciascuna, e da ciascuna sarai amato, in modo differente. E se anche fosse vero ciò che si dice, di un luogo lontano dove sono le donne ad avere più mariti, esse si troverebbero nella medesima situazione. Il vero cuore dell’amore è al di sopra della appartenenza ad un sesso o all’altro.
– Io non avrò tre mogli. Voglio solo l’amore di Maryam.
*
Al ricordo di quel colloquio Farid scrollò le spalle, e riprese il cammino, ripensando alle istruzioni avute da quel vecchio saggio, intorno al quale spirava un’aria di santità.
A tre giorni di cammino, in direzione del sole che tramonta, avrebbe dovuto trovare un gruppo di rocce emergenti dalla pianura desolata e fra queste una protuberanza che ricordava nella forma la testa di un uccello, dal becco adunco. Lì, nascosta da qualche parte, c’era una piccola caverna, poco più di un buco nel sasso. All’interno era deposto un oggetto che egli avrebbe dovuto prendere e portare via con sé. Durante il viaggio di ritorno, la meditazione su quest’oggetto gli avrebbe potuto rivelare la verità sull’amore.
I tre giorni erano trascorsi, ed ogni sera aveva controllato con cura il luogo dove il sole era tramontato, studiando i punti di riferimento da seguire il giorno successivo, per essere sicuro di non sbagliare la direzione. Lungo il tragitto aveva attraversato ben quattro gruppi di rocce emergenti, ma nessuna di queste aveva le caratteristiche richieste.
Stava per abbandonare l’ultima formazione rocciosa quando si rese conto che il sole era ormai basso sull’orizzonte e avrebbe dovuto analizzare il percorso per il giorno successivo, prima di fermarsi per la notte. Tolse il basto all’asino che gli trasportava i viveri e l’acqua di riserva, lasciandolo libero di scegliersi un giaciglio per la notte e cominciò ad arrampicarsi sulla roccia più alta per avere la visione più ampia possibile dell’orizzonte e decidere quali fossero i punti di riferimento migliori.
L’arrampicata fu più difficile del previsto: la roccia era friabile e cedeva facilmente sotto il suo peso. Dopo tre o quattro tentativi falliti, il giovane decise di sbarazzarsi del qaftân, l’abito che gli intralciava i movimenti, e finalmente riuscì a risalire fin quasi alla cima, ma improvvisamente la pietra sulla quale aveva posato il piede sinistro cedette. La mano destra artigliò veloce un appiglio di fortuna, ma anche questo si sbriciolò sotto le sue dita, e non poté evitare una rovinosa caduta all’indietro.
Rimase in terra per parecchi minuti, stringendosi il gomito sinistro che aveva urtato violentemente. Poi a poco a poco, si riprese: provò a muovere il braccio, gli faceva molto male ma riusciva a piegarlo senza troppe difficoltà, niente di rotto per fortuna. Però in queste condizioni sarebbe stato ancora più difficile ricominciare l’arrampicata.
Uno sguardo verso occidente lo riempì di smarrimento: il deserto sembrava di un’esasperante monotonia; la direzione del punto in cui sarebbe tramontato il sole poteva essere utilizzata come meta per il giorno dopo. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Lacrime di delusione, di sconforto, di rabbia.
Ma reagì dopo poco. Dal basto posato in terra trasse il tappetino delle preghiere, lo svolse, si sfilò i sandali e indossò nuovamente l’abito. Infine si inginocchiò sul tappetino, chinò la fronte fino al suolo e, volto verso la Mecca, come ogni buon muslim, si preparò alla preghiera vespertina, il magrib.
– O Tu che dal nulla hai creato il mondo e le terre e le acque lontane e il cielo che ti nasconde dietro i settantamila veli. Il Tuo nome è il principio di ogni nome, è il primo principio e la fine ultima. Primo di tutti, ancor prima che inizi il conto, ultimo di tutti quando il conto si sarà estinto da settantamila anni…
Quando la preghiera fu terminata, aveva già ripreso il controllo di sè; c’era ancora tempo, prima che facesse buio del tutto; avrebbe prima rifocillato l’asino e poi fatto un nuovo tentativo di raggiungere la cima di qualche altro masso, meno alto ma più solido.
Mentre arrotolava il tappetino delle preghiere, si guardò intorno: l’asino non era in vista. Lo chiamò con un lungo fischio modulato, come era solito fare, ma senza conseguenze. Allora decise di mettersi alla sua ricerca: doveva aver trovato qualche arbusto secco da masticare.
Infatti dopo pochi minuti lo vide. Era fermo, con la grossa testa china verso il terreno, alla base di un masso come tanti altri. Avvicinandosi sentì un brivido percorrergli la schiena: l’asino stava bevendo. Chissà come, seguendo l’istinto, l’animale aveva trovato una minuscola pozza d’acqua completamente sconosciuta; nemmeno il vecchio maestro gli aveva accennato alla sua esistenza, malgrado fosse così importante per chi viaggia nel deserto.
Bevve anche lui, a sazietà, e nel rialzarsi posò distrattamente lo sguardo sulla roccia accanto alla quale c’era l’acqua. Una piccola protuberanza, poco più grande di un pugno, era visibile a circa due passi di distanza ed aveva indiscutibilmente la forma della testa di un uccello. Ecco perché non l’aveva notata prima: cercava qualcosa di molto più grande. Osservò attentamente la zona circostante, ma non si vedeva traccia di caverne o di buchi, soltanto un poco più avanti l’aspra nudità della roccia era interrotta, proprio a livello del terreno, da un mucchietto di sassi, misti a sabbia, evidentemente franati da un livello superiore.
Li scostò rapidamente con le mani nude e presto si rivelò la presenza, dietro di questi, di un vano nella roccia. Febbrilmente terminò il lavoro di sterro. All’interno era poggiata una brocca di terracotta non verniciata.
La rigirò a lungo fra le mani: era un oggetto rozzo, a grana mal setacciata, sbeccata in paio di punti sull’orlo, sporca all’interno di un terriccio rossastro diverso da quello che si poteva trovare nelle sue zone. Certamente veniva da lontano, ma non era diversa dalle brocche che si possono acquistare al mercato per pochi spiccioli. Che bisogno c’era di arrivare fin laggiù per trovare questo tesoro?
Evidentemente doveva possedere delle qualità particolari, forse difficili da individuare a prima vista, oppure il segreto poteva rivelarsi nel viaggio di ritorno (non era così che aveva detto il vecchio harif ?) se l’avesse acquistata al mercato difficilmente avrebbe poi avuto a disposizione tre giorni interi per meditarci su, distratto solo dalla fatica del cammino e dalla necessità di governare l’asino.
Sì, probabilmente era questa la spiegazione. Ma, visto che c’era, tanto valeva utilizzarla. La sciacquò rapidamente nella pozza d’acqua, la riempì, ne bevve una lunga, piacevolissima sorsata e si avviò dove aveva lasciato le sue cose, per riempire nuovamente le sacche di cuoio della riserva. In bocca gli era rimasto un sapore fresco e delizioso, differente da quello che aveva provato bevendo direttamente dalla pozza.
Per convincersene sollevò nuovamente il contenitore e bevve ancora, a lungo; sembrava che la brocca avesse il potere di trasformare la semplice acqua in una specie di elisir divino.
Sorrise: si stava suggestionando.
Giunto presso il basto, nel poggiare in terra il contenitore gli venne voglia di bere nuovamente, ma ebbe la sgradevole sorpresa di trovarlo vuoto. Com’era possibile? Aveva tracannato due sorsate, lo ricordava bene, lunghe certo ma non tanto da svuotarlo per più di un quarto e invece non ce n’era nemmeno una stilla, solo una larga macchia d’umidità sul fondo. Guardando all’indietro, lungo il cammino percorso, vide una lunga serie di larghe gocce che stavano rapidamente evaporando sulla sabbia ancora calda. La brocca doveva avere delle lesioni che non aveva notato prima e che la rendevano del tutto inutilizzabile per contenere liquidi. Scosse la testa rassegnato, poco male: non è per quest’uso che l’aveva cercata. La sete, nuovamente sopraggiunta, l’avrebbe estinta con l’acqua di riserva e domattina avrebbe riempito di nuovo le sacche. Ma l’acqua della borraccia aveva ora un sapore amaro, stantio, un sapore di vecchio, di pelle mal conciata.
Il sole stava rapidamente tramontando.
“Presto, prima che faccia buio!… “, pensò. Afferrò il basto e lo trascinò a fatica verso la minuscola sorgente.
Avrebbe pernottato lì, accanto al suo asino, bevendo a sazietà l’acqua fresca, finché ne avesse avuto voglia.
Era fresca, infatti. Ma nulla di più.
*
Il cielo era ormai completamente chiaro ad oriente e a momenti sarebbe spuntato il sole, quando Farid aprì gli occhi. Per un attimo cedette alla tentazione di godere ancora un po’ di quel piacevole sonno, ma subito dopo reagì. Si sbarazzò rapidamente della coperta e, ancora un po’ intirizzito dal freddo della notte, si diresse verso la pozza d’acqua, raccolse la brocca e fece per riempirla.
Il fondo era sporco di terra, quella stessa strana terra rossiccia della sera precedente. La poggiò delicatamente a terra e con una mano si deterse il sudore che improvvisamente si era formato sulla fronte. Costringendosi a mantenere la calma, cominciò a passeggiare all’interno della formazione rocciosa, guardandosi accuratamente intorno. Ogni tanto si fermava, raccoglieva un pugnetto di terriccio sabbioso e lo confrontava mentalmente con quello presente in fondo al contenitore, ma non riuscì a trovare nulla che gli assomigliasse nemmeno lontanamente.
Ritornato alla sorgente, sedette in terra rigirandosi a lungo, lentamente la brocca fra le mani. Per un attimo ebbe la tentazione di scagliare quell’oggetto contro la parete e farlo in mille pezzi, ma desistette subito. Testardamente rifece quasi gli stessi gesti del giorno prima: sciacquò accuratamente il contenitore, assicurandosi però che non ci fosse più traccia di terra, lo riempì d’acqua e bevve.
E dimenticò in un attimo tutti problemi: la sua attenzione era catturata interamente dalla sensazione celestiale di quell’acqua che scivolava tra le labbra, frescura che gli deliziava la bocca, la gola e tutto il suo essere.
Come aveva potuto pensare, sia pure per un istante, di distruggere la brocca?
*
Il viaggio di ritorno fu caratterizzato da una serie di problemi diversi che si intrecciavano inestricabilmente fra di loro. Prima di tutto c’era la vaga preoccupazione di ritrovare la strada giusta. Il vecchio gli aveva detto di seguire, per l’andata, la direzione del sole al tramonto, ma non aveva fatto alcun cenno ad eventuali punti di riferimento per il ritorno. Farid si era allontanato così tanto dalla città per la prima volta in vita sua, e per di più da solo, senza guida e senza esperienza. Gli sembrava logico ora avanzare nella direzione del sole che sorge, ma qualcosa gli diceva che forse non sarebbe stato così ovvio, se avesse saputo davvero come orizzontarsi. Comunque all’inizio il problema non era poi molto grave: gli bastava tener d’occhio il terreno e ripercorrere le sue stesse orme del viaggio d’andata.
A questo pensiero si alternava il continuo tentativo di trarre una spiegazione logica dall’esistenza stessa di quella brocca. Perché era lesionata? Si trattava di un caso o doveva essere proprio così per condurlo alla comprensione della vera natura dell’amore? Certo, l’esistenza delle lesioni era fuori discussione a causa della continua perdita del liquido, ma non gli riusciva proprio di vederle, e questo era incomprensibile.
Camminando, aveva fatto ogni sorta di esperimenti. Aveva riempito la brocca di sabbia, ma non se era perso nemmeno un granello. Aveva allora provato a saggiare con la lingua quella stessa sabbia, ma non aveva assaporato nulla di diverso da ciò che poteva logicamente aspettarsi.
Aveva perfino grattato con il suo coltello un poco di quella terra rossa che inesplicabilmente si riformava sul fondo, ma nemmeno questa aveva alcun sapore particolare: forse appena un po’ più salata della sabbia.
Aveva bevuto dalla ghirba l’acqua raccolta nella pozza, ma puzzava anch’essa di pelle conciata. Infine aveva versato una piccola quantità della stessa acqua dalla borraccia nella brocca ed aveva provato a berla. E qui la situazione era cambiata: il sapore era di nuovo piacevole, forse non come lo ricordava, ma certamente molto più gradevole di quella attinta direttamente dagli otri della riserva. A questo punto aveva deciso di smetterla con le prove: la scorta d’acqua non era infinita, dopotutto, e la meta era ancora lontana. In ogni caso, per tutta la durata del primo giorno di viaggio, quando sentiva il bisogno di bere riversava un poco di liquido dalla borraccia alla brocca e beveva da lì, benché questa operazione comportasse ogni volta una piccola perdita, dovuta al travaso ed alla rapida evaporazione. Nel pomeriggio, poi, cominciò a notare un altro particolare: il piacere che traeva dall’acqua sorseggiata dalla brocca diminuiva sempre di più e verso sera l’unica differenza che poteva rilevare rispetto a quella della ghirba consisteva nella mancanza di odore.
Nel corso della notte, trascorsa al riparo di una delle tante formazioni rocciose che aveva esplorato nei giorni precedenti, fu svegliato dal levarsi di un forte vento freddo.
Si portò più vicino ad una grossa rupe, vi si addossò completamente, si avvolse più stretto nella coperta e riprese il sonno interrotto.
All’alba trovò il basto mezzo sepolto dalla sabbia, lo ripulì alla meglio e subito dopo la preghiera del fajr si rimise in cammino. Ma quale fu la sua delusione quando si accorse che il vento notturno aveva completamente cancellato le sue orme. Ora avrebbe avuto come unica indicazione il punto dove era sorto il sole, ma già dal giorno precedente si era accorto che le sue tracce divergevano un poco da quella linea immaginaria, cercò quindi di mantenere la stessa variazione angolare nel senso di marcia; ma più procedeva più cresceva l’ansia ed il timore di non ritrovare la via giusta: infatti, diversamente dal giorno prima, non gli riusciva di riconoscere nessuna delle caratteristiche del suolo che aveva notato nel viaggio d’andata. Tentò di tranquillizzarsi, immaginando che il vento della notte, che aveva spostato notevoli quantità di sabbia, poteva aver mutato la fisionomia dei luoghi, almeno nei loro particolari minori.
Nel tardo pomeriggio raggiunse un gruppo di rocce che credeva di aver già esplorato, ma una volta all’interno di queste fu assalito da un tremito d’angoscia. Quasi al centro della formazione, in un lieve avvallamento, si ergeva un masso dall’aspetto così peculiare, a forma di cammello accosciato, che sarebbe stato impossibile non riconoscerlo se l’avesse già notato in precedenza.
Adesso aveva paura sul serio. La sua memoria di adolescente, o poco più, era colma di racconti tragici, ascoltati la sera, accanto al focolare, su uomini e animali che si erano persi nel deserto e che erano stati poi ritrovati dalle carovane molti anni più tardi, completamente mummificati.
Le gambe si rifiutavano di reggerlo, non sapeva se per la stanchezza o per il terrore di non rivedere più la sua adorata Maryam.
Sedette su di una larga pietra e versò un poco d’acqua nella brocca. Rimase a lungo a guardarla prima di bere, ripercorrendo all’indietro con la memoria il cammino fatto negli ultimi due giorni. Rivedeva la pietra-uccello e la pozza sconosciuta e ricordava la sensazione meravigliosa di quell’acqua attinta per la prima volta dalla brocca magica…
Poi finalmente la portò alle labbra e bevve.
Fu come ritornare indietro nel tempo. Il liquido fresco scivolò nel suo corpo come un ruscello improvvisamente scaturito da una roccia su di un terreno arido. Sentiva i semi contenuti nel suo corpo risvegliarsi dal un letargo millenario; fili d’erba spuntavano tra le pieghe della sua pelle e fiori… fiori dalle tinte accese e multicolori, delicate e tenere. Il trionfo della vita.
La mano di Maryam sfiorò la sua e i loro sguardi s’incontrarono, come quella prima volta al mercato, accanto alla moschea. Ma ora lei gli era vicina e lo toccava e lui sentiva un fuoco percorrergli le vene e l’abito di lei diventava trasparente: un velo impalpabile che non nascondeva più, anzi metteva in risalto il seno abbondante e turgido, le cosce bianche e tenere, i lunghi morbidi capelli scuri che le sfioravano le spalle, appena mossi da un alito di vento…
*
Ehi, ragazzo svegliati!… Stai male?
Un uomo avvolto in un burnus scuro era chino su di lui, con aria apprensiva, e gli scuoteva leggermente una spalla. L’ambiente era debolmente illuminato da una torcia tenuta alta da un’altra persona, poco discosta.
– Che ti è successo? Sei svenuto?
– No, non lo so. Forse mi sono addormentato.
– Addormentato? senza coprirti? vuoi morire di freddo?
Farid si alzò con fatica, sentiva tutte le ossa dolergli. Il suo asino, a pochi passi di distanza, sembrava completamente estraneo alla scena.
– Io… forse la stanchezza. Credo di aver perso i sensi.
Il primo uomo si rivolse al compagno.
– Vieni qui con quella luce, fammi vedere… Ma io ti conosco. Non sei il figlio di Azîm?
– Sì, stavo tornando a casa.
– Da dove?
Il ragazzo non sapeva cosa rispondere. Tentò di deviare la conversazione.
– Siamo lontani dalla città?
– No, è laggiù a tre o quattro ore di cammino. Domattina verrai con noi, così evitiamo sorprese ai tuoi genitori.
Lo guardava con aria sospettosa, cercando di immaginare come mai un giovane di sedici anni, con la sola compagnia di un asino, si fosse allontanato tanto da casa da non sapere neppure più che direzione prendere per il ritorno.
– Che cosa hai combinato? – riprese – I tuoi sanno che sei qui?
– Sì… no, non lo sanno. Non ho fatto nulla di male: avevo solo bisogno di stare solo.
– Te lo dico io che è successo. – intervenne l’altro uomo, sghignazzando – Probabilmente la ragazza gli ha detto di no e lui è scappato qui a piangere sul suo dolore.
* * *
Erano trascorsi due anni dalla sua avventura, ora Farid ibn’Azîm giocava con le dita di Maryam, all’ombra del palmizio.
– Che cosa hanno di particolare le mie dita? non ti piacciono?
– Stavo guardando le unghie.
Lei sciolse una mano dalle sue e la osservò attentamente.
– Beh, non sono un gran che, vero?
– Sono importanti, invece. Le tue, come quelle di chiunque altro… Ricordano la nostra origine divina.
Maryam si distese all’indietro, sulla sabbia, senza commentare. Aspettava.
– Quando Adam e la sua compagna furono tentati dall’Angelo del Male e mangiarono il frutto dell’albero della vita e dell’eternità, avvenne una trasformazione in loro. La pelle, a poco a poco, si staccò dal corpo e cadde al suolo in tanti piccoli pezzi. Rimasero così, con la carne nuda, come siamo noi adesso.
– Ma noi la pelle l’abbiamo.
– Certo, ma è diversa da quella che aveva Adam.
– E com’era?
– Guarda le tue unghie: è tutto ciò che resta della pelle che aveva scelto Allah, il Misericordioso, per noi.
– E perché è rimasta sulla punta delle dita?
– Questa è stata la Sua volontà. Forse desiderava che Adam si guardasse le unghie, di tanto in tanto, e ricordasse il Paradiso che aveva perduto e tutte le sue delizie. La ragazza tornò a guardarsi la mano, perplessa.
– Chi ti ha raccontato questa storia?
– Il vecchio Tabari, prima di andarsene. Ci fu un lungo silenzio, prima che Maryam riprendesse a parlare.
– Tabari… è scomparso da tanto tempo, senza dire niente a nessuno. Chissà che fine ha fatto.
– Io lo so.
– Tu? Non è possibile: tutto il villaggio lo ha cercato per settimane e tu non hai detto nulla.
– Non lo sapevo ancora. Poi, tanto tempo dopo, mi è venuta in mente un’ipotesi.
– E dove sarebbe?
– Quando lui è scomparso è sparito anche il mio asino, ricordi? Beh, non era proprio mio: in realtà era il suo asino, solo che lo lasciava usare a me.
– Questo vuol dire che pensava di andare lontano
– Molto lontano, infatti.
– Dove?
– Credo che abbia tentato di raggiungere la Montagna di Quaf, la Madre di tutte le montagne. La Montagna che circonda tutto il mondo, come quest’anello circonda il tuo dito.
– Che uomo straordinario deve essere stato! É lui che ti ha insegnato a leggere e scrivere, vero?
– Perché parli di lui al passato? Io credo che Tabari sia ancora vivo.
– Era molto anziano, e un viaggio così lungo…
– È un uomo saggio che conosce il senso dell’amore.
– E te lo ha rivelato?
– No, ma mi ha messo in condizione di capirlo da solo.
– Davvero? e che cos’è l’amore, secondo te?
– Qualcosa contenuto in una brocca… una vecchia brocca d’argilla, dal fondo cosparso da tanti piccoli buchi, così piccoli da non essere visibili.
– E che cosa c’è dentro?
– Nulla.
– Che assurdità. Non mi dirai che ami una brocca? e magari più di me?
– Non la brocca, ma il suo contenuto.
– Cioè il vuoto.
– L’amore è desiderio. E per desiderare una cosa bisogna conoscerla. Può piacerti un uomo che non hai mai visto, di cui ti hanno solo parlato, ma questo non è amore, è solo speranza, attesa d’amore.
– Non so, può darsi. Ma che c’entra con la brocca?
– L’amore è anche mancanza, assenza dell’oggetto del tuo desiderio: vacuità attraversata.
– Ma ti contraddici.
– No… Per amare veramente devi conoscere e poi perdere, e riconoscere ancora e nuovamente perdere. L’amore è assenza di qualcosa che abbiamo avuto, che non abbiamo più, che avremo di nuovo, che perderemo ancora…
– Tu vedi l’amore come sofferenza.
– Se tu sapessi com’è dolce bere da quella brocca non parleresti così.
– Ti contraddici lo stesso. Se devi perdere e riconquistare qualcosa è come… come amare qualcuno che non si conosce. Tu stesso l’hai detto: non è amore è solo speranza.
– Sì, ma nel primo caso si trattava di un’attesa senza fondamento, senza conoscenza, senza speranza. Nel secondo, dell’attesa di un ritorno, di qualcosa che abbiamo già avuto e che può tornare, se veramente lo vogliamo.
Non è stato facile capirlo e forse la vera comprensione sta nella coscienza dell’incapacità di comprendere.
– Ora stai giocando con le parole.
– L’amore è anche questo: un gioco a dadi in cui non importa tanto vincere o perdere, ma solo giocare.
– E se perdi?
– Purché non sia per sempre…
– Tu vuoi farti del male… e forse farlo a me.
– Se tu sapessi com’è stato dolce bere di quell’acqua fresca…
(Autore Franco Ruggeri)