NAPOLI. In un’ora breve ma intensa, su un palcoscenico spoglio al di là di un tavolo e due sedie, è da definire quantomeno caratteristica la prova attoriale di Pier Giorgio Bellocchio e Vanessa Scalera che, al Piccolo Bellini, hanno messo in scena Autobiografia erotica di Domenico Starnone.
Non casuale, a mio avviso, la decisione di rappresentare lo spettacolo nell’accogliente saletta teatrale, così da coinvolgere direttamente il pubblico in un dialogo introspettivo su tematiche quotidiane a lui vicine, spesso però affrontate malvolentieri.
Nel corso della rappresentazione, la vita di Aristide, editore che incarna i perfetti tratti dell’uomo comune, viene scardinata dagli schemi borghesi nei quali egli stesso l’ha incastonata, recitando da sempre la farsa di “marito e professionista esemplare”. In seguito all’incontro con Mariella, una sconosciuta con cui ha avuto a che fare soltanto una volta vent’anni prima, in un fugace rapporto sessuale del quale aveva dimenticato quasi tutto, il protagonista si trova inevitabilmente a fronteggiare se stesso.
Ecco come, attraverso il corpo, viene recuperato l’ormai dimenticato elemento della coscienza: gli involucri di carne frementi e passionali di Bellocchio e di Scalera sono stati in grado di descrivere al meglio le scontentezze, i malumori, le nevrosi e le sofferenze che costituiscono l’animo di ciascun essere umano.
Prima vaghi, poi sempre più nitidi, i ricordi hanno preso a farsi avanti quasi minacciosamente: i toni accesi gorgogliati dalle bocche dei personaggi hanno scandagliato in maniera chirurgica quanto sanguigna, non di certo preoccupandosi di fare un uso parco della volgarità, la giornata vissuta dai due tempo addietro, della quale son venuti fuori anche i particolari più intimi e carnali. Forse, difatti, al giorno d’oggi, ci si dimentica che, solo attraverso il corpo, la ragione può esprimersi. Orbene, la messinscena si traduce in un’amara riflessione sulla totale incapacità, di ogni uomo, a vivere i rapporti in maniera autentica, privilegiando una più comoda e conveniente insincerità. La pubblica e pudìca morale dietro cui ciascuno di noi si cela, prima o poi è destinata a venire giù alla pari di un sipario strappato: basta soffermarsi a pensare le conseguenze delle proprie azioni, anche quelle più insignificanti, per capire che spesso siamo abituati a sguazzare nel mare delle ipocrisie, come la società dell’apparenza ci ha istruito a fare, piuttosto che metterci nei panni dell’altro. Del tutto assenti le musiche; angoscianti e lontani lamenti hanno soppiantato armoniche melodie, per un finale senz’altro cruento, ma sorprendente, ai limiti dello scioccante.
L’intervista
Fuori il teatro, dopo lo spettacolo, ho avvicinato Pier Giorgio Bellocchio, con il quale abbiamo avuto un cortese scambio di battute.
Come mai la scelta di trattare una tematica così introspettiva, attraverso il corpo?
«Senz’altro è stata una scelta ardua. Non appena letto il copione, sia io che Vanessa abbiamo avuto tentennamenti nell’uso di determinati vocaboli ma, poiché abbiamo già fatto molti spettacoli insieme, pian piano l’imbarazzo ha lasciato il posto alla voglia di fare sempre meglio. È una rappresentazione ricca di significati: qui, grazie al tema del corpo, viene fuori un’esperienza che, fugace per una persona, è stata di peso nei successivi vent’anni per un’altra».
Lei, in quanto figlio di Marco, grande regista, si sente più uomo di cinema o uomo di teatro?
«Io mi sento uomo e basta, scrivilo così (ride). Scherzi a parte, ho avuto una marea di esperienze nel mondo del cinema, infantili, adolescenziali e da adulto; il teatro, invece, è un mondo a cui mi sono avvicinato da poco, nella maturità, che mi coinvolge e perciò non mollerò tanto facilmente».
Autobiografia erotica al Bellini: come, grazie al corpo, viene ripresa la coscienza
