Sono 21 stampe che accompagnano lo spettatore in un viaggio nel tempo e nello spazio insieme al senso preciso di quella frazione di secondo, quando il pezzo di pietra sembra girare, ruotare, sollevare peso, respirare, piegarsi o sospirare. E’ allestita nelle sale del Museo di Roma in Trastevere, la mostra dal titolo “Frammenti. Fotografie di Stefano Cigada”, curata da Jill Silverman van Coenegrachts, fino al 15 marzo 2020. Cigada, fotografo che, dopo anni passati all’estero come fotoreporter in ambito marino, cambia rotta, rallenta, rientra nel suo paese d’origine e inizia a cercare un’altra forma per esprimersi, sempre con la macchina fotografica, ritrovando una vecchia passione per l’archeologia. La sua ricerca diventa un’ossessione: quella di far “palpitare” le statue antiche, arrivate a noi quasi mai integre, come dichiara egli stesso: “Cercando quello che manca, quello che non si vede, cercando l’infinito nel frammento”.
Cigada viaggia in tutta Europa, visita i musei per scovare le statue di cui coglie non l’interezza ma la fragilità, mettendo a fuoco la rottura, la faglia, nell’attimo in cui quel particolare “è toccato dalla luce naturale”. Le immortala quando vengono colpite da un raggio di sole attraverso una finestra o una porta, le va a trovare in diverse ore del giorno, mese dopo mese, stagione dopo stagione. L’immobilità diviene movimento, la materia fredda del marmo rivive con l’inganno dell’effetto mimetico.
E come l’artista stesso racconta: “Conosco statue ed orari in cui sono colpite dalla luce, con che incidenza arriva la luce secondo il calendario. Ad esempio alla Centrale Montemartini il 27 di settembre una delle mie statue preferite – il guerriero morente del tempio di Apollo Sosiano – è accarezzata per dieci minuti da un raggio di sole. Una settimana prima e una settimana dopo il sole passa oltre, e la fotografia è inutile. Solo durante quei 10 minuti succede qualcosa di magico. E quelli sono i miei dieci minuti, quelli che voglio acciuffare”.
Dialoga con le statue, divinità, animali, guerrieri, atleti, ninfe, senza preferenze, scegliendo quelle che gli “parlano” e che lo illuminano. Le fotografa senza cavalletto, senza luce artificiale, con lenti luminose, apertura massima di diaframma e poca profondità di campo. Mette a fuoco il punto il punto di rottura, elevando quel frammento a protagonista mentre tutto il resto sfuma. Cigada consegna questo frammento allo spettatore per riempirlo con un’immagine, percependo molto di più di quel che realmente vede.
La magia di questi Frammenti risiede nello strato subatomico della materia: il marmo è vivo, allo stesso modo di piante e animali. Il livello molecolare della pietra, infatti, si muove, magari in modo differente dalle altre specie animate, ma si muove. La luce del giorno, che cambia nel giro di un istante, fornisce una prova del dato scientifico, quasi come una performance. Cigada va alla ricerca di quell’esatto momento, che carpisce dopo innumerevoli prove ed errori: la sua ossessione permette allo spettatore di assaporare la fugace ma palpabile evidenza di una materia viva, che respira.
La serie fotografica sembra a prima vista, agli occhi di un pubblico non esperto, l’ennesima raccolta di scatti in bianco e nero di statue antiche romane. Non propriamente un soggetto inconsueto in una cultura che ama spasmodicamente le sue origini. Ma poste sotto la lente d’ingrandimento di un più approfondito esame, queste foto raccontano un’altra storia. Qui una ri-visitazione della statuaria classica, in senso lato e in senso stretto, racconta la storia di un uomo che osserva la luce. In quelle stanze l’artista contempla a lungo il passare delle ore, per fermare sulla pellicola quella frazione di secondo, quel preciso istante dell’anno in cui il gioco di luci e ombre si esprimono in modo trasformativo. Osservando le istantanee emerge una visione non come semplice fotografo, ma come artista concettuale, al pari di Jan Dibbetts, il maestro olandese che catturava lo scorrere del tempo sequenziando, una dopo l’altra, le immagini dello stesso paesaggio, o di Robert Mapplethorpe, che alla fine della sua vita, vessato dall’AIDS che inesorabilmente lo stava uccidendo, disse di non avere più la pazienza necessaria per gestire lo stress e le emozioni del fotografare soggetti reali, preferendo loro oggetti inanimati. Le sculture classiche divennero il soggetto principale dei suoi ultimi scatti, in cui Mapplethorpe cercò di catturare il respiro del marmo. L’analogia tra il respiro del fotografo nell’attimo in cui scatta l’otturatore e l’essenza dell’oggetto il cui respiro sembra impossibile da rilevare, è il vero soggetto di questi artisti che, invece di usare il pennello, si affidano alla macchina fotografica.