Non sempre siamo abituati a vedere il mito nelle sue imperfezioni.
Anzi, talvolta, abbiamo remore anche nel rappresentarlo come imperfetto: riuscirci non è un lusso, ma un atto di coraggio e forte creatività.
Yves Saint Laurent è uno di quei miti che, più di altri, è difficile raccontare.
Il suo genio è un caleidoscopio di fragilità, a volte sottili come i tessuti che amava. La sua vita fu successo, gloria, lusso, ma anche droga, alcol, ricoveri psichiatrici e un’umanità spesso ridotta ai limiti del riconoscibile. La sua creatività, più volte spezzata e poi ricomposta, era la definitiva rappresentazione dell’incoerenza dell’arte e della sua bellezza.
E’ questo il ritratto che di lui ci ha offerto Marco Sgamato che, l’ 8 e il 9 giugno, ha portato il suo spettacolo, “L’Amour Fou”, al teatro dell’Istituto Grenoble di Napoli. Uno spettacolo già messo in scena due anni fa e ora riproposto in chiave ancor più incisiva, con un cast di attori composto da Gianni Caputo, Roberta Astuti, Alessandra Buono, Claudio Cacciaglia e Simona Perrella.
Sul palcoscenico il personaggio di Pierre Bergé, compagno di Yves, ripercorre le tappe della loro vita insieme, nascondendosi dal dolore, poi affrontandolo e, con esso, affrontando anche i momenti difficili, gli allontanamenti, quel riconciliarsi quasi inevitabile, ciclico.
Yves è un’ombra che lo accompagna, lo turba e continua ad ammaliarlo in un gioco di dettagli che solo la grande sensibilità del regista poteva concepire in un modo tanto elegante e, al tempo stesso, potente.
Una potenza che attraversa tutto lo spettacolo, dal primo all’ultimo minuto, e che rende omaggio allo spirito del grande stilista con quel tocco delicato, quasi uno sfiorare, più difficile da rendere di ogni grande manierismo teatrale.
L’eleganza, invece, è anche opera anche dei meravigliosi costumi realizzati da Liliana Castiello, che è riuscita nell’arduo compito di riprodurre la raffinatezza di un mosto sacro della moda.
Abbiamo fatto qualche domanda a Marco Sgamato, giovane regista e attore, che ha scritto e diretto questo spettacolo
Come è nata l’idea di creare uno spettacolo intorno alla figura di Yves Saint Lauren?
Ero in Francia e, per rifugiarmi da una protesta contro l’approvazione dei matrimoni gay, mi trovai bloccato nella libreria della fondazione Yves Saint Lauren. Su uno scaffale trovai un libro di lettere di Pierre Berge a Yves. Mentre lo sfogliavo, mi imbattei in una frase di Plinio il giovane “Ho perso il testimone della mia vita. Temo che ormai vivrò con minor cura di me stesso”. Questa frase mi colpì tantissimo.
Un paio di settimane dopo acquistai il libro e, dopo averlo letto, mi ripromisi di farne uno spettacolo
Perché la scelta di rappresentare, nelle ombre e poi nel manichino, la parte femminile dello stilista?
Non è tanto l’immagine femminile, quanto più un’ambiguità, che è l’ambiguità dello spirito che non ha sesso.
Lo spettacolo, a livello di regia, funziona con due spazi: lo spazio dell’al di qua e lo spazio della memoria, dove si trova l’anima di Yves.
Inoltre altre figure rappresentano due modelle: una è ispirata alla moda di Chanel, l’altra a quella di Yves Saint Lauren. Pierre è così accompagnato da queste due cariatidi che rappresentano rispettivamente lo stile nella prima metà del novecento e nella seconda.
Questi personaggi alimentano la memoria e fanno da tramite tra i due spazi.
La scena in cui Pierre gira il pannello dietro il quale c’è l’ombra del compagno defunto e trova soltanto il manichino, che svela in scena l’illusione, mi ricorda sempre mio nonno che, dopo cinquant’anni, ha perso la compagna e avverte ogni sera la sua presenza in casa, ha l’idea che qualcuno lo chiami, gli comunichi qualcosa, così come Pierre in scena.
Nello spettacolo c’è un riferimento, quasi un omaggio, a Maria Callas. Un’anima affine a Yves?
Sì. C’è un riferimento ben preciso espresso nello spettacolo: così come la Callas iniziò a morire dopo aver abbandonato il palcoscenico, Yves iniziò a spegnersi quando abbandonò la sua casa di moda.
Hanno accumulato opere d’arte, hanno affrontato tutti i tipi di sfumature della vita umana, anche se in scena quello che ho voluto rappresentare è il vuoto. La fama, la gloria, per quanto possano essere meravigliose, possono essere anche terribili. Il genio ha delle intuizioni schiaccia la sua fragilità e tutto ciò diventa drammatico. Non si può sopportare il peso della propria grandezza, del creare un’opera che sopravviva nel tempo, che sopravviva a se stessi.
Quello tra Yves e Pierre è stato un amore molto forte, che è durato tutta una vita e oltre la morte, nonostante molte difficoltà. Cosa ti ha colpito di più nel ricostruire la loro storia?
Quello che mi ha colpito di più l’ho messo direttamente in scena. Si parte con una commemorazione funebre dove Pierre non piange, è rigoroso, già rassegnato. Poi si passa a una seconda fase in cui lui accusa con grande vigore gli atteggiamenti negativi del suo compagno. Chi si aspetta l’amore non si aspetta questa violenza, questa rabbia.
Lo spettatore resta stranito proprio perché affronta gli orrori della loro relazione. Si capisce che l’amore è, purtroppo, anche costellato di dolori, perché si creano delle dinamiche che possono generare dipendenza. Tuttavia quando c’è la stima reciproca si può costruire l’amore e tra loro c’era una grande stima, nonostante momenti di gelosia e rabbia. Quando, per un periodo, si lasciarono, Pierre si trasferì a soli due palazzi di distanza, non riuscendo a separarsi nettamente da Yves.
Nell’epoca contemporanea c’è una difficoltà nelle relazioni, ci si interroga su cosa possa, in una relazione, resistere al tempo. Probabilmente una risposta non ci sarà mai, però bisogna avere occhi per dove c’è amore, anche se a volte può essere rischioso.
Questo volevo rappresentare e mostrare come Pierre provi effettivamente la mancanza, la nostalgia del genio. “Tu eri onnipotente e lo sei ancora” dice a un certo punto, sopraffatto dal dolore.
Quando potremo assistere a un tuo nuovo spettacolo?
Porteremo anche altrove “L’Amour Fou”.
Poi progetti in cantiere sono diversi. In particolar modo sto lavorando a “Lacrimarum Valley”, ispirato a “A porte chiuse” di Sartre. Mi riallaccio così alla mia tesi di laurea, relativa alla rappresentazione dell’inferno in scena, lavorando molto anche all’idea dello spazio chiuso, della claustrofobia.
Foto in copertina di Gianni Biccari