“L’amore, che non osa dire il suo nome in questo secolo, è il grande affetto di un uomo anziano nei confronti di un giovane, lo stesso che esisteva tra Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, lo stesso che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare… Non c’è nulla di innaturale in ciò”. Oscar Wilde
E’ una delle affermazioni più celebri di Oscar Wilde, pronunciata durante uno dei processi a suo carico, in cui emerge tutta la sensibilità e l’intelligenza dello scrittore irlandese che, imputato per diversi reati, si difese dagli attacchi del pubblico ministero Charles Gill. E’ il 25 maggio del 1895 e Wilde viene condannato dal giudice Willis a due anni di lavori forzati per omosessualità, il massimo della pena prevista dalle rigide leggi dell’epoca Vittoriana. Ad accusarlo, Lord Queensberry, il padre di Bosie, il ragazzo amato dallo scrittore dell’Estetismo.
Moisés Kaufman (1963), autore e regista newyorchese di origine venezuelana, racconta attraverso un avvincente montaggio tratto dai verbali giudiziari e altre testimonianze, la vita di Oscar Wilde e, in particolare i tre processi che lo coinvolsero. Kaufman cerca di raccontare questo evento di cronaca attraverso il teatro, tenendo conto delle versioni fornite da George Bernard Shaw, Lord Alfred Douglas, Frank Harris e lo stesso Wilde, ognuno con una personale interpretazione. E’ la volontà di portare in scena visivamente ed emotivamente tutte le fasi del dibattimento e dei protagonisti, un rito teatrale in cui si parla di arte, di libertà, di teatro, di sesso e di passione, ricostruendo i fatti e l’ambiente, attraverso una ricerca filologica e documentaristica, senza tralasciare le considerazioni dell’opinione pubblica. Così il processo diventa un evento mediatico, (oggi sarebbe amplificato da internet e dalle piattaforme social), dove qualunque artista o persona comune, del passato e del presente, si sentirebbe privato non solo della dignità, ma anche della propria privacy. Ciò che emerge è l’uomo Oscar colpito nella sua riservatezza e l’artista Wilde colpito nella sua reputazione.
Interessante per qualità e contenuto è la messinscena proposta da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia al Teatro “Bellini” di Napoli, fino al 2 febbraio 2020, con il supporto dei nove straordinari attori, ognuno dei quali interpreta più di un personaggio. Partendo dal testo, reso lineare e con un idioma comprensibile al pubblico, si assiste al cronoprogramma del dibattimento. Lo spettatore riesce a ricostruire visivamente l’atmosfera e le diverse fasi attraverso le arringhe e le accuse dei protagonisti in scena, che con pregevole capacità dialettica rievocano i fasti dell’antica oratoria greca di Demostene ed Isocrate. Se nella prima parte è Wilde che denuncia per calunnia John Sholto Douglas, IX marchese di Queensberry; nel secondo procedimento e nel terzo, si dovrà difendere dall’accusa di omosessualità e sodomia nei confronti del figlio del marchese, Alfred Douglas, (Bosie). Unico imputato, si contraddistingue per la proprietà di linguaggio e per l’abbigliamento diverso rispetto agli altri, in cui si evidenzia l’estro artistico e l’approccio non convenzionale. La scenografia è essenziale: otto sedie d’epoca e quattro sbarre su un palco con uno sfondo nero. La parte centrale della scena è caratterizzata, a seconda delle fasi del processo, da immagini che si alternano attraverso delle proiezioni: la bilancia della Giustizia durante l’arringa degli avvocati; a seguire il ritratto della regina Vittoria, artefice di un inasprimento delle pene con l’approvazione di una serie di leggi durante il suo regno; una voce narrante annuncia i titoli dei giornali del processo a Wilde, sullo sfondo un puzzle di bulbi oculari osservano i protagonisti della scena, simboleggiano gli “occhi” degli organi di stampa. Infine, i serpenti sono la metafora dei ragazzi convocati in tribunale per testimoniare contro lo scrittore. Le sbarre, invece, delimitano la “libertà spaziale” di Wilde, il perimetro in cui è stato “rinchiuso”, giudicato dai presenti nell’aula, dalla stampa e dal popolo.
In questa atmosfera tesa non mancano momenti poetici, ironici e commoventi. Resta sullo sfondo il rapporto amoroso per dare spazio all’analisi dell’uomo denigrato e condannato dalla giustizia e dalla società. L’etica, l’amore e la passione sono soppiantate dall’estetica, dall’apparenza e dalle convenzioni sociali.
Nel ruolo di Wilde, Giovanni Franzoni, artefice di una interpretazione magistrale, in cui emerge l’eleganza dei gesti e delle parole nel descrivere la propria arte, in antitesi ai toni duri e anche ironici che utilizza per replicare alle invettive dei suoi detrattori. Di straordinaria intensità è il monologo sull’Arte e sulla Bellezza, intesi come punti di riferimento nell’affrontare la vita: entrambi vissuti intensamente e non come semplice appendice o in maniera effimera. E’ una esortazione alla ricerca delle emozioni profonde attraverso il culto del Bello, dell’osservazione e della contemplazione.
Notevole è il ruolo di Ciro Masella che dimostra una certa versatilità nell’interpretare il IX marchese Queensberry, a cui dà una certa autorevolezza, l’avvocato Gill, il procuratore Lockwood e la voce narrante. Riccardo Buffonini, invece, è Lord Alfred Douglas. Ad affiancarli, nel ruolo di personaggi e narratori, Giuseppe Lanino, Nicola Stravalaci, Edoardo Chiabolotti, Giusto Cucchiarini, Ludovico D’Agostino e Filippo Quezel.
La storia di Wilde è ancora attuale, in un mondo ancora caratterizzato dai pregiudizi e dal finto cosmopolitismo della società, da omofobia, ipocrisia, disprezzo e denigrazione, dopo 125 anni, la strada verso la tolleranza, il rispetto e la libertà, è ancora molto lunga da fare.