Il 26 agosto Boris Pahor ha compiuto 107 anni.
Lo scrittore, di lingua slovena, è nato a Trieste. A sette anni assisté all’incendio del Narodni dom (Casa del Popolo), sede centrale delle organizzazioni della comunità slovena di Trieste, esperienza che lo segnò per tutta la vita, affiorando spesso nei suoi romanzi e racconti.
Parteciperà al primo conflitto Mondiale e nel 1944 fu catturato dai nazistie internato in vari campi di concentramento in Francia e in Germania.
Dopo essersi laureato in Lettere si dedica all’insegnamento e negli anni Cinquanta diventa redattore principale della rivista triestina Zaliv (Golfo) che si occupa, oltre che di temi strettamente letterari, anche di questioni di attualità.
Nel 1975, assieme all’amico triestino Aloiz Rebula, Pahor pubblica il libro “Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca” (Edvard Kocbek: pričevalec našega časa). Nel libro-intervista, pubblicato a Trieste, il poeta sloveno denuncia il massacro di 12.000 prigionieri di guerra, appartenenti alla milizia anti-comunista slovena e i crimini delle foibe perpetrati dal regime comunista jugoslavo. Il libro provoca durissime reazioni da parte del governo jugoslavo. Le opere di Pahor vengono proibite nella Repubblica Socialista di Slovenia e a Pahor viene vietato l’ingresso in Jugoslavia.
Grazie alle sue posizioni morali ed estetiche, Pahor diventa uno dei più importanti punti di riferimento per la giovane generazione di letterati sloveni. L’opera più nota di Pahor è “Necropoli” romanzo autobiografico sulla sua prigionia nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof.
Nel 2003 gli è stato conferito il premio San Giusto d’Oro dai cronisti del Friuli Venezia Giulia; nel giugno del 2008ha vinto il Premio Internazionale Viareggio-Versilia; nel maggio del 2007 è stato insignito con l’onorificenza della Legion d’onore; ha ricevuto il Premio Prešeren, maggiore onorificenza slovena nel campo culturale. Nel 2008, con Necropoli è stato finalista e vincitore del Premio Napoli per la categoria “Letterature straniere”. Nel 2012 gli è stato assegnato il “Premio Letterario Internazionale Alessandro Manzoni – città di Lecco” per la sua autobiografia Figlio di nessuno.
“E’ un compleanno diversissimo”, confessa Pahor “Soprattutto per la relazione italo-slovena che si è creata. Il Presidente Mattarella mi ha dato un grande premio: all’Europa si dica che l’Italia è capace anche di grandi azioni importanti. Con la restituzione del Narodni dom l’Italia ha dato una dimostrazione di ampiezza di vedute. Io ricevo questo grande premio e lo offro alle vittime di tutte le dittature. Nessuno se lo aspettava. E’ stata una gran bella azione”.
Necropoli
Campo di concentramento di Natzweiler-Struthof sui Vosgi. L’uomo che vi arriva, un pomeriggio d’estate insieme a un gruppo di turisti, non è un visitatore qualsiasi: è un ex deportato che a distanza di anni torna nei luoghi dove era stato internato. Subito, di fronte alle baracche e al filo spinato trasformati in museo, il flusso della memoria comincia a scorrere e i ricordi riaffiorano con il loro carico di dolore e di commozione. Ritornano la sofferenza per la fame e il freddo, l’umiliazione per le percosse e gli insulti, la pena profondissima per quanti, i più, non ce l’hanno fatta. E come fotogrammi di una pellicola, impressa nel corpo e nell’anima, si snodano le infinite vicende che ci parlano di un orrore che in nessun modo si riesce a spiegare, unite però alla solidarietà tra prigionieri, a un’umanità mai del tutto sconfitta, a un desiderio di vivere che neanche in circostanze così drammatiche si è mai perso completamente. Scritto con un linguaggio crudo che non cede all’autocommiserazione, Necropoli è un libro autobiografico intenso e sconvolgente. E se Boris Pahor ci racconta la sua esperienza del mondo crematorio perché la memoria non si perda e la storia non sia passata invano, quella che ci dà non è però solo la fedele testimonianza delle atrocità dei lager nazisti, è anche un emozionante documento sulla capacità di resistere e sulla generosità dell’individuo.
Il petalo giallo
Un maturo scrittore sloveno, reduce dai campi di concentramento nazisti, riceve un giorno l’insolita Iettera di una sconosciuta, che in modo allusivo paragona il male da lei subito nell’infanzia con gli orrori della deportazione e dello sterminio. Una confessione indecifrabile, un segreto gelosamente custodito per tanti anni. Solo a poco a poco lo scrittore comprenderà quale sia la prova dolorosa e indicibile che ha segnato per sempre la giovane donna e che fatalmente li accomuna: entrambi hanno subito l’estrema violazione del corpo, annientato nei lager o aggredito dalla più nascosta, ma non meno devastante, violenza familiare. E solo nella profondità di un eros ritrovato i loro corpi sapranno riguadagnare equilibrio e fiducia, riscattando la dignità offesa. Un romanzo coraggioso che illumina – con la dolente lucidità di cui Pahor è maestro – il paradosso della ragione umana, insieme fonte di bellezza e di distruzione. Pagine intrise di memoria, individuale e collettiva, che scavano in quelle libertà negate o soffocate da cui sempre riverberano domande irrisolte, esistenze inquiete, conflitti mai pacificati.
Il rogo nel porto
Boris Pahor racconta il destino del suo popolo nell’Italia del Novecento e le suggestioni di una città elusiva e ammaliatrice come Trieste. La raccolta di racconti Il rogo nel porto non solo è ai livelli più alti della grande letteratura europea, ma racchiude in sé tutti i temi e i motivi ispiratori cari all’autore, restituendo al lettore aspetti della storia contemporanea del nostro paese dimenticati o colpevolmente rimossi: le vicissitudini della comunità slovena sotto il fascismo, la difesa di un’identità culturale brutalmente minacciata, la violenza che investe umiliati e offesi e annuncia l’orrore delle deportazioni nei campi di sterminio. Sullo sfondo Trieste, città di confine, i cui paesaggi e colori sono rievocati con un lirismo visionario intriso di potenti metafore.
Una primavera difficile
Maggio 1945, Radko Suban è un reduce sloveno dall’orrore dei campi di concentramento nazisti. Le sofferenze del lager hanno segnato il suo corpo, indebolito dalla tubercolosi, ma non hanno piegato il suo spirito, alimentato dalle sue letture. Dopo un lungo viaggio in treno, Radko riceve le cure in un sanatorio alle porte di Parigi, dove conosce l’infermiera Arlette. L’incontro con la donna risveglia i sentimenti di Radko, che riscopre la vita nella primavera più attesa di sempre, in cui i ricordi e i desideri leniscono il dolore di una guerra che ha lasciato nuove frontiere. Da uno dei più grandi testimoni del Novecento, un romanzo sulla riscoperta della libertà, sulle ferite e le resurrezioni della nostra storia, sulle passioni che ci rendono vivi.
Figlio di nessuno
Queste sono le memorie di una “cimice”: così infatti l’Italia fascista definiva apertamente gli sloveni, “figli di nessuno” per un quarto di secolo. Sono i ricordi di un ragazzo derubato della sua cultura. Di un prigioniero che lotta per sopravvivere. Di un marito e padre aspro e intenso. Di un uomo libero. Dall’infanzia poverissima segnata dalle discriminazioni alla Resistenza, dalla guerra in Libia alla scoperta dell’amore, dall’impegno politico a quello letterario, Pahor traccia in questo libro il bilancio senza reticenze di una vita trascorsa ad attraversare confini fisici e spirituali, e solleva un velo sugli aspetti più privati del suo passato regalandoci un autoritratto inedito e umanissimo. Trovano posto in questa narrazione le passioni intellettuali e gli amori in carne e ossa: quello travolgente per Arlette, la ragazza francese conosciuta in sanatorio all’indomani della liberazione e che lo restituì alla vita, l’inquieta relazione con Danica, giovane antifascista trucidata insieme al marito dai collaborazionisti sloveni o dai comunisti in un mistero ancora non risolto. E poi il matrimonio con la bellissima Rada, permeato da una profonda condivisione ma segnato da assenze e allontanamenti sentimentali. Mentre sullo sfondo si delinea uno scorcio potente del secolo scorso che restituisce alla memoria la storia degli sloveni dei nostri confini orientali, in un intreccio di eventi storici e vissuto privato. “Non ho paura della morte come tale, è più il dispiacere infinito di perdere la vita. Certo, anche il mistero imponderabile di ciò che c’è dopo mi provoca inquietudine. Ma più di tutto mi dispiace perdere le cose positive della vita: le donne che ho amato, e la natura” riflette Pahor in pagine memorabili sul senso e il pensiero della fine. E alle soglie dei cento anni ci regala il privilegio di accompagnare un grande uomo e un grande testimone nel suo più intimo viaggio nel passato e nel futuro.