12 Gennaio 1969; esattamente cinquant’anni fa quattro ragazzi inglesi, per Atlantic Records, fecero uscire il loro primo album omonimo…quel disco si chiamava “Led Zeppelin”.
I Led Zeppelin sono stati forse l’emblema vivente di quanto la creatività, la cultura, il genio, possano fare la differenza nell’ambito musicale e lo hanno dimostrato nel corso degli anni sapendosi rinnovare nei più svariati settori musicali ma questa è un’altra storia. Parliamo oggi di quel primo album che avrebbe cambiato per sempre la concezione della musica Rock moderna. Un album da 44 minuti di puro estro e genio, registrato per poche migliaia di dollari e in poche ore di presa diretta. Un viaggio inclusivo di ogni genere, dal pop al blues al rock al metal, questo è diventato una pietra miliare della musica al di fuori di ogni classificazione possibile. La componente stilistica maggiore del disco, il filone principale, è senza dubbio quella blues della chitarra di Jimmy Page al quale la rimanente parte del gruppo si unisce e collega in più occasioni, nonostante sia presente, come su citato, ogni possibile influenza stilistica. I pezzi sono un mix di ritmi estremamente particolari grazie al lavoro del batterista John Bonham e qui serve aprire una parentesi: se i Led Zeppelin sono stati quelli che conosciamo tutti gran parte del merito è di questo batterista. Uno stile così articolato da richiedere anni di studio per gli appassionati dello strumento; un estro così particolare ed una sintonia così profonda con lo strumento che l’intera produzione musicale (almeno fin quando non è venuto a mancare) è pregna dei suoi rudimenti. Il genere risulta, così, contaminato sin nel profondo da venature tribali e ossessive. Il collante di tutto è il basso, e la tecnica, di John Paul Jones. Come è solito notare, scenicamente questi personaggi non erano al centro dell’attenzione ma di sicuro non mancavano di dare spettacolo. Un bassista dalla profonda vena progressive che con i suoi giri ha saputo unire le improvvisazioni degli altri componenti della band. Per avere un idea chiara consiglio l’ascolto delle esecuzioni live della band dove le improvvisazioni e le cuciture ritmiche del basso rendevano sicuramente al meglio. In ultima analisi (ma mai per ultimo, sia chiaro) in ogni grande gruppo serve un grande leader, una grande voce e i nostri possono vantare forse la migliore delle voci tutt’ora in circolazione, quella di Robert Plant. Erano gli anni ’70 e i figli dei fiori spopolavano questa terra in cerca di pace, amore e verità contro le ingiustizie sociali, quando un angelo biondo dal fisico snello e slanciato ipnotizzava le folle con una voce acuta e al quanto femminea. Era lui, Robert, un volto guida di questo movimento, a dare voce a esperienze sensoriali ultraterrene attraverso esibizioni sempre fuori dal normale. Le note uscivano dalle sue labbra incantando chiunque potesse ascoltarlo; non è un caso se è tutt’ora uno dei maggiori sex symbol mondiali della musica.
Uno dei meriti di questo album e, ancor più in generale, di questo gruppo è stato sicuramente quello di portare la musica ad un livello superiore sotto infiniti aspetti. C’è così tanta contaminazione e sperimentazione che molte band ancora attuali risuonano in quelle note. Questo album, creato in pochissimo tempo, è stato il padre non di qualche gruppo ma di interi generi musicali. La forza della musica e del gruppo è rimasta impressa negli anni e si è tramandata di voce in voce sino ai giorni nostri, ed oggi dura ancora. Cinquant’anni, per chiunque, sono un bel traguardo (se pensiamo che di norma a quest’età siamo a metà della nostra vita) ma volendo prendere spunto da una nota canzone “non esiste traguardo per chi sceglie di percorrere la scala verso il paradiso”.